Ema è una fiamma che vibra e danza con forza e passione nelle strade, nelle piazze, negli autobus o nello studio di registrazione diretta da suo marito Gastòn. Il ballo è la sua dimensione, una linfa vitale che la rigenera per ridarle quella forza che consuma nei rapporti con tutti quanti. Come il sole riprodotto in una gigantografia in studio per una performance, Ema è il centro gravitazionale intorno al quale ruotano il marito, i parenti, i colleghi di scuola e le compagne di danza. Una forza della natura incontrollabile, incapace di mantenere e gestire la propria esistenza entro binari prefissati e, perciò, destinata ad isolarsi, come nelle frequenti danze al tramonto in giro per le strade o per il porto di Valparaìso. Inoltre l’insistenza sul simbolismo del fuoco serve a connotare la protagonista come forza incontrollabile che infiamma in ogni interazione con il prossimo.
La storia di Ema (Mariana di Girolamo) e Gastòn (Gael Garcìa Bernal) incomincia con il fallimento di un’adozione: dopo neanche un anno i due hanno restituito il piccolo Polo perché venisse affidato ad una famiglia migliore. La narrazione, quindi, comincia in medias res: lo spettatore non vede ciò che è accaduto e non può affidarsi ad un racconto oggettivo dei fatti, ma deve rimettersi ai reciproci racconti, caratterizzati, prima, da drammatici interrogativi, poi, da reciproche accuse. In mezzo a tutto ciò si intravedono i contorni di Polo, il bambino adottato; prima dolce e affettuoso, poi difficile e problematico (ha bruciato i capelli della sorella di Ema, deturpandone il volto).
Nei sette film precedenti Pablo Larraín ha raccontato il passato e i peccati del proprio Paese: l'avvento del Golpe di Augusto Pinochet ("Tony Manero", "Post Mortem"), la caduta dello stesso regime ("No – i giorni dell’arcobaleno"), le colpe della Chiesa ("Il club") e la persecuzione del poeta Pablo Neruda nel bellissimo "Neruda", con una parentesi statunitense a raccontare i terribili giorni successivi all'assassinio di J.F. Kennedy ("Jackie"). Nel suo ottavo lungometraggio, "Ema", presentato in concorso alla 76esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, il regista cileno racconta invece il presente, in particolar modo la generazione dei ragazzi nati negli anni Duemila. Se prima si trattava di un passato non vissuto da protagonista per evidenti ragioni anagrafiche (il suo anno di nascita è il 1976), qui si racconta una generazione successiva, non vissuta in prima persona anche in questo caso. Si cerca di mettere in scena il Cile di oggi, attraverso gli occhi di questi ragazzi. Il tutto immerso, per la prima volta, in un contesto musicale costante, una sorta di musical o, meglio, una serie di videoclip che sembrano interrompere la storia come inserzioni pubblicitarie. E Larraín racconta tutto ciò con una pellicola diversa, quasi sperimentale e destrutturata, intima e indifesa, calata in uno stile nuovo e in contrapposizione alla precedente produzione, sia pur personalissima, delle pellicole prima citate. La musica elettronica martellante e il susseguirsi di danze e montaggio alternato dei primi venti minuti assumono quasi le fattezze di una video installazione sperimentale da performance art. In mezzo a questo susseguirsi di scene vorticose, la narrazione cerca di mettere in ordine gli accadimenti e di trovare una linea espositiva. Lo stile segue parallelamente la storia: Larraín infatti impiega zoom che muove all'indietro per svelare lentamente oggetti o persone ed informare il pubblico (si pensi a Ema e a Gastòn abbracciati sul letto a forma di automobile del bambino) o avanti per isolare la protagonista dal contesto intorno (nelle scene collettive, per prime quelle musicali). Nonostante la frattura causata dal fallimento dell'adozione, che porterà al divorzio, i due rimangono legati e, si capisce, bisognosi uno dell'altro. Il regista cileno racconta i loro confronti e diverbi contrapponendoli uno di fronte all’altro e facendo sfiorare la macchina da presa dal loro sguardo, quasi ad incrociare quello dello spettatore così da renderlo partecipe chiamandolo in causa e trasmettendo un senso più intimo e partecipato alla scena, alla maniera di Jonathan Demme.
La musica è protagonista, come si diceva, e il raggaeton è il ballo di Ema e delle compagne che diventa un moto di liberazione, non a caso è la strada il luogo di rappresentazione, dove tutto può succedere, da una protesta ad una rivendicazione. Tali luoghi vengono fotografati da Sergio Armstrong con incredibile attenzione ad ogni colore, così da catturare la vitalità della città. Nella seconda parte però la sceneggiatura scritta con Guillermo Calderòn e Alejandro Moreno perde quel fascino per raccontare il piano di Ema, astruso e irrealistico. È chiaro che è un altro modo per rappresentare Ema e la sua generazione come persone libere di impostare la propria vita fuori dagli schemi consolidati e dal sistema che si vorrebbe, ma appare tutto francamente molto improbabile. È il segno di una pellicola unica, per ora, nella filmografia di Pablo Larraín, che ha voluto tenere premuto il pedale sull'acceleratore e superare i tradizionali confini. Diversi aspetti non sono all'altezza rispetto ad altre sue opere, però va riconosciuto il coraggio e l'ambizione di osare e rimettersi in discussione a costo di bruciarsi in quell'enorme sole. "Ema" non è un film sulla famiglia e sull'adozione, come si potrebbe asserire frettolosamente, ma un inno alla libertà e alla vitalità di una generazione che non deve combattere contro un regime ma trovare, piuttosto, una propria identità.
cast:
Mariana di Girolamo, Gael García Bernal
regia:
Pablo Larrain
distribuzione:
Movies Inspired
durata:
102'
produzione:
Fabula
sceneggiatura:
Pablo Larrain, Guillermo Calderòn, Alejandro Moreno
fotografia:
Sergio Armstrong
scenografie:
Estefania Larrain
montaggio:
Sebastian Sepulveda
costumi:
Muriel Parra, Felipe Inostroza
musiche:
Nicolas Jaar