Pablo Larraín prosegue la sua filmografia ad personam cominciata nel 2016 con "Neruda", seguita dall'acclamato "Jackie" e il recente "Spencer", ma cambia le regole del gioco, del suo cinema, sperimenta (per la prima volta) una messa in scena horror-comedy che indaga la nemesi del Cile per antonomasia, Augusto Pinochet (Jaime Vadell), un irrisolto nazionale, una "pastorale cilena". Il regista ritorna all'ossessione della trilogia composta da "Tony Manero", "No – i giorni dell'abbandono" e "Post Mortem", in cui raccontava proprio il golpe cileno del 1973. Nella pellicola in concorso a Venezia Larraín ipotizza una personalissima versione vampiresca del dittatore cileno, vivo, ancora oggi, da oltre duecentocinquant'anni in una landa desolata ai margini meridionali del continente; in preda a una crisi esistenziale, vuole morire, non sopporta più che il mondo di oggi non ne riconosca il valore e, soprattutto, l'onestà – ogni anno controlla che nel palazzo presidenziale a Santiago compaia il suo busto assieme a quello degli altri primi ministri della storia cilena, niente da fare. Eppure, l'inaspettata relazione con una suora (Paula Luchsinger) esperta in esorcismo e dal sorriso angelico gli farà cambiare idea (?).
Dal voice over che anima il preludio iniziale - che poi scopriremo essere la voce dell'improbabile madre di Pinochet nell'immaginario larrainiano, ossia, rullo di tamburi, Margaret Thatcher, - è evidente che l'intento cronachistico della cosiddetta trilogia della dittatura è confinato alle insinuazioni parossistiche della suora (alias il ruolo della chiesa cilena durante la dittatura) riguardo i misfatti del regime di Pinochet, che, è ribadito più volte, è infastidito se lo si considera un ladro, non un omicida. L'improbabile processo alle intenzioni del dittatore e della famiglia che ne amministrava gli interessi durante (e dopo) il regime (e che ne aspetta l'eredità) - Pinochet è morto da milionario e del tutto impunito come sottolinea Larraín -, è l'innesco di una narrazione macabramente sincrona, alla Vonnegut, in cui il passato è anche presente, tutto esiste perché ericlitianamente non muta, cioè una dimensione anfibia che, di conseguenza, chiama a gran voce il profilo mezzosangue per eccellenza, il vampiro, ciò che è "cosi per sempre". Dunque, una pellicola sull'eredità contemporanea di Pinochet, sul fascismo eterno direbbe Umberto Eco, sul reiterarsi dell'imposizione del consumo, occidentalissima: "il capitalismo potrà nutrirsi solo di sé stesso" appunta Chiara Valerio. Se nei film precedenti Larraín ha raccontato il Pinochet che la storia ha consegnato, in "El Conde", il protagonista è il Pinochet che c'è tra noi (in noi?), con le Nike ai piedi; o meglio, di più, della nostra ineluttabile metamorfosi vampiresca, non un destino, ma una realtà analitica e necessaria, a cui Larraín guarda dal basso verso l'alto, quasi spingendo l'uomo al vampiro, al volo. La materia di "El Conde" è anzitutto antropologica, poi spirituale.
La "mise en page" di Larraín è ben riassunta nell'ambivalenza del bianco e nero di Ed Lachman, con un bassissimo livello di saturazione, a miscelare i due elementi cromatici a formare un ambiente anch'esso sincrono, melmoso, tendente al crepuscolo, di luce rarefatta, speso grigio, in cui, concorderebbe il Bolano di "notturno cileno", può succedere di tutto, perfino che Pinochet sia un orfano francese cresciuto e formatosi nella Francia del Re Sole e abbia difeso i valori monarchici durante la Rivoluzione francese - lo spunto classista che anima il film.
Il vademecum allegorico di Larraín ha in parte vizi "dell'opera prima", sperimentale in molti aspetti, acerba, caotica, frenetica, la sete del j'accuse toglie respiro alla pellicola, al profilmico, riempito all'inverosimile e in parte depotenzia l'idea metatestuale di Larraín. Insomma, l'involucro comedy-horror è croce e delizia della prima prova in questo genere del regista cileno, forse in trance, forse specchiato. Ma "Dio è un artista vanitoso", e un pizzico di agrodolce, di commedia nella tragedia, è altresì un'ottima intuizione per trovare la giusta distanza da cui raccontare la metamorfosi del fascismo, la sua rigenerazione, del tutto umana, materna. In effetti, più che un allegoria, quella di "El Conde", è una prosopopea, in cui – a prestito dalla bibbia - l'apocalisse ha i toni del romantico, del bucolico: l'uomo dietro al vampiro. Il male è una questione semantica, non lessicale.
cast:
Jaime Vadell, Gloria Münchmeyer, Alfredo Castro, Paula Luchsinger
regia:
Pablo Larrain
distribuzione:
Netflix
durata:
110'
produzione:
Fabula (Juan de Dios Larraín, Pablo Larraín, Rocío Jadue)
sceneggiatura:
Guillermo Calderón, Pablo Larraín
fotografia:
Edward Lachman
scenografie:
Rodrigo Bazaes
montaggio:
Sofía Subercaseaux
costumi:
Muriel Parra