Diego Armando Maradona ha giocato nel Napoli per sette stagioni. In realtà, durante la settima fu allontanato dalla sua squadra e dal campionato italiano nel mese di marzo, dopo essere stato trovato positivo a un controllo antidoping. Il britannico di origini indiane Asif Kapadia ha fatto una scelta di campo netta: ha preso in considerazione solo quegli anni e ha deciso in modo inequivocabile di stare dalla parte del campione argentino. Certo, nel suo lungo (forse lunghissimo) documentario non risparmia nulla, ci mette dentro tutto: ogni forma di caduta in cui Diego poteva incorrere c'è. La droga, che da strumento per allontanarsi dalla realtà diventa vera dipendenza patologica; la camorra, prima cercata come possibilità di protezione e poi diventata presenza ingombrante e sgradita; il calcio che diventa sempre più periferico nell'esistenza del Pibe de Oro. Ma in tutto questo, attraverso una lodevole attività di ricerca, di montaggio e di narrazione post-prodotta, il documentarista ci dice chiaramente che il tracollo di Maradona vide lui stesso come ultimo tra i colpevoli. Chi conosce il cinema non di finzione di Kapadia sa che questo stile di racconto non è una novità: sia alle prese con la vita di Ayrton Senna, sia con quella di Amy Winehouse, egli ha sempre decisamente tenuto alla larga dal suo sguardo cinematografico l'obiettività. E d'altronde, nessuno la pretende, anzi, rimaniamo positivamente colpiti da questa capacità di partire da un assunto forte e partigiano e da lì imbastire un meticoloso lavoro di ricostruzione dei fatti.
Il documentario, per Kapadia, è uno strumento per fare giustizia, per rimettere assieme i cocci frantumati dalla caduta. E questo è un bell'esempio di cinema militante, a suo modo. Il punto è che lo sguardo del regista non riesce mai ad essere innovativo, guardando i suoi film non si ha mai l'impressione che qualcosa di originale stia prendendo forma davanti ai nostri occhi. Eccellente in fase di ricerca e assemblaggio, Kapadia si conferma ancora una volta immaturo nel procedimento successivo, ovvero la trasformazione del materiale raccolto in qualcosa di altro e di nuovo rispetto alle disponibilità degli archivi inerti. In "Diego Maradona" i 130 minuti della versione finale sono il frutto di un travagliatissimo lavoro di rifinitura di ben cinquecento ore di filmati inediti che la famiglia Maradona ha messo a disposizione dell'autore. A questi, Kapadia ha affiancato interviste realizzate ad hoc e i consueti filmati di dominio pubblico che riguardano principalmente le partite.
Il senso del narrato ruota attorno al nome e al cognome immortalati anche nel titolo dell'opera. Prima c'è stato un Diego, talento inimitabile e irraggiungibile, ma anche giovane argentino venuto su dai sobborghi di Buenos Aires che a Napoli ha trovato una sorta di crociata personale da condurre: una città e una cittadinanza dileggiata dal resto d'Italia alle prese con una rivincita morale attraverso il calcio. Poi Diego, all'incirca dopo le prime due stagioni in Italia e dopo la Coppa del Mondo vinta in Messico con la Nazionale, è sparito per lasciare spazio a Maradona, il mito vivente che è rimasto imprigionato nella città, nei colori sociali del club, nelle aspettative dei tifosi e nelle pressioni di chi tifoso non era e da lui cercava altro. Questo scarto porta Corrado Ferlaino a dichiarare che a un certo punto "mi ero accorto di essere diventato il suo carceriere". Secondo il racconto di Kapadia, Diego ha tentato di ribellarsi a Maradona, di lasciare Napoli, ma la leggenda ha sconfitto il ragazzo e lo ha tenuto inchiodato alle sue dipendenze, fino al disastro finale dell'ultima stagione. Da una parte questo scontro tutto interiore, tra il passato genuino e un presente lacerante, dall'altra un binomio invece diventato con il tempo simbiotico. Il campione e la città si trasformano in una cosa sola. Kapadia lo fa dire ai testimoni di quegli anni: l'allenatore, il compagno di squadra, l'avvocato. Chi non ha vissuto quel momento storico di Napoli, forse, non può capire. Due istinti di rivalsa si sono uniti in un'unica battaglia contro il mondo esterno, allontanandosi reciprocamente dalla realtà, dalla giusta visione delle cose e dei fatti. Coadiuvato in sede di montaggio dal talentuoso Chris King, Kapadia racconta bene la parabola, mette in fila con dovizia di dettagli il corso degli eventi, ma tralascia costantemente una profondità di riflessione che stenta ad esplodere. Evidentemente poco a suo agio con il calcio giocato, paga dazio soprattutto allorché si trova a divagare proprio sugli avvenimenti in campo. La digressione dedicata a Mexico '86, infatti, è completamente fuori fuoco, passando da una storia raccontata per immagini inedite e intime a un'asettica sintesi di quanto accaduto in quel mese.
"Diego Maradona", al netto di pregi e difetti, è meno bello di "Senna", realizzato nel 2010 dal cineasta anglo-indiano: il Numero Dieci, infatti, al pari della cantante Winehouse, avrebbe avuto bisogno di un racconto capace di sporcarsi e mischiarsi con quei sentimenti più torbidi e irrazionali che hanno dominato queste due disgraziate esistenze. Alle prese con la breve vita del divino Ayrton, invece, Kapadia ha trovato un destino più adatto alla sua personalità cinematografica, più incline, evidentemente, a parlarci di uomini che soffrivano allo stesso modo, ma urlavano soltanto dentro.
cast:
Diego Armando Maradona
regia:
Asif Kapadia
distribuzione:
Nexo Digital
durata:
130'
produzione:
On The Corner Films
montaggio:
Chris King
musiche:
Antonio Pinto