Amy Winehouse muore nella sua casa londinese durante la notte fra il 22 e il 23 luglio 2011. Il cuore e il fisico esile non reggono dopo che per troppo tempo l'ammirata cantante ha abusato di alcool e sostanze stupefacenti. Per molti si tratta di una morte annunciata, l'ennesimo capitolo della saga "genio e autodistruzione" che accompagna tutta la storia della musica (e non solo).
Vincitrice di sei Grammy Awards (di cui uno postumo, ottenuto per un duetto con Tony Bennett di cui andava molto fiera), talento notevolissimo, personaggio e vocalità fuori dal comune, la Winehouse in pochi anni di sfolgorante carriera è riuscita a trovare il successo senza mai abdicare alle sue radici jazz-soul in favore di sound più cari al pubblico british (il da lei tanto odiato pop!). Anche i media, alla loro maniera, si sono innamorati di questa ragazza tatuata, senza peli sulla lingua, un po' scapestrata, al tempo stesso provocatoria e genuina, eccessiva e fragile, come spesso si sono rivelate fragili le star che sembravano più ribelli. Ma l'amore dei mezzi di comunicazione, si sa, spesso si manifesta in un desiderio di fagocitare che mette a dura prova anche i più resistenti, figurarsi quelli che forti lo sono solo in apparenza.
Quando si è profilata la possibilità di realizzare un documentario che rendesse omaggio alla cantante, la famiglia Winehouse pare abbia esplicitamente fatto il nome del regista inglese di origine indiana Asif Kapadia, poiché ammiratori della sua precedente opera, l'acclamato (e assai bello) "Senna". A risultato finito, è noto che si sono pentiti della scelta, poiché nel film i familiari, in particolare il padre (figura genitoriale assente durante l'infanzia di Amy ma molto presente una volta che l'artista ha raggiunto il successo, forte anche di un grande ascendente sulla figlia) non ne escono bene, visto che sembrano più interessati ai remunerativi impegni di Amy che non alla sua salute.
Presentato a Cannes, fra le proiezioni di mezzanotte (quelle tradizionalmente dedicate a film d'evasione, cosa che in effetti questo malinconico ritratto non è), "Amy, the girl behind the name", uscito nelle nostre sale con quelle strane formule distributive, pochi giorni in sala e prezzo maggiorato, che forse non fanno proprio un bel servizio a opere così (anche se qualcuno obietterà che è sempre meglio che acquistarle senza mai farle uscire) come struttura ricorda molto "Senna". Kapadia e il suo team hanno visionato ore e ore di materiale d'archivio ricostruendo la parabola della ragazza di Enfield, fra esibizioni dal vivo, interviste e filmati privati (Amy alle feste di compleanno, a divertirsi con gli amici, addirittura mentre si reca in prigione a trovare il marito). Le immagini si accompagnano alle testimonianze delle persone vicine alla cantante: i genitori, le amiche di sempre, i collaboratori. Le figure più controverse sono il padre, Mitchell, tipico genitore che nel successo della figlia realizza le proprie ambizioni frustrate (ad un certo punto si presenta dalla figlia in vacanza, già molto provata, seguito da una troupe giornalistica, intenzionata, pare, a girare un film sulla vita di lui), e il marito Blake Fieder-Civill, figura parassitaria che pur di non staccarsi dalla moglie preferì sottovalutare la sua dipendenza da stupefacenti (per quanto Amy accettò di andare in riabilitazione solo a condizione che anche Blake lo facesse, con risultati inconcludenti per entrambi). La fragilità della Winehouse emerge nel rapporto con queste due figure, indice probabilmente di profonde mancanze d'affetto. Ma anche quando l'amica Juliet ricorda che subito dopo la vittoria dei Grammy (prima artista a vincerne cinque in una sola edizione ma Amy si esibì da Londra, perché la terapia che stava seguendo sconsigliò di affrontare il viaggio negli States) la cantante la prese in disparte confessandole che senza le droghe tutto era così noioso. Forse la famiglia ha ragione a dire che Kapadia e i suoi hanno omesso qualcosa ma la Winehouse che emerge in queste due ore abbondanti di film è decisamente credibile.
Documentario non originalissimo, "Amy", però, si rivela molto efficace nel tracciare la discesa agli inferi della cantante, in questo facilitato dalla morbosa attenzione che i media dedicavano a questa ragazza sempre più in difficoltà. Impietose le immagini di Amy sempre più magra che canta rabbiosamente il suo cavallo di battaglia "Rehab", oppure quelle di un concerto in Slovenia dove si rifiuta di cantare, suscitando le ire del pubblico. Tutto questo condito dagli onnipresenti paparazzi e dai commenti al vetriolo di comici e speakers britannici e non solo (alcuni dei quali avevano persino avuto Amy come ospite), tutti d'accordo nel rivendere crudelmente l'immagine di un "idolo infranto". E la musica in tutto questo? La già citata "Rehab" ma anche "Back to Blake", "Love is a losing game", "You know I'm no good", "Tears dry on their own", più altri brani meno conosciuti, servono invece a ribadire come il talento cristallino e naturale di Amy fosse sopravvissuto nonostante le difficoltà personali. E le immagini del lavoro in studio con Tony Bennett, mentre incidono "Body & Soul" ci mostrano una cantante abile ma intimidita, preoccupata di fare perdere tempo all'artista tanto stimato (stima ricambiata come si evince dalle dichiarazioni rilasciate dallo stesso Bennett). Una persona timida e insicura che forse non cancella la ragazza sfrontata e ruspante che ricordiamo ma che rende l'immagine del talento andatosene anzitempo più completa!
20/09/2015