C’era una volta il cinema italiano che provava a risalire la china del tempo perduto, quello che prima lo vedeva primeggiare nel cinema di genere grazie a un’inventiva e a un’artigianalità ancora oggi invidiateci da autori di massimo grido internazionale. Di quella recherche i Fratelli Manetti rappresentano uno degli avamposti più agguerriti per aver fatto del genere il codice del loro cinema a fronte di una cifra stilistica capace di trasformare l’esiguità delle risorse in un valore aggiunto, in grado di fissarne le peculiarità.
Caratteristiche cui i registi non rinunciano neanche quando si tratta di realizzare la loro produzione più importante e prestigiosa, quella che ha permesso loro di portare sullo schermo uno dei personaggi più iconici dell’immaginario popolare italiano, nato nel 1962 dalla penna di Angela e Luciana Giussani che ne hanno fatto da subito uno dei fumetti più letti e venduti.
Come altri film tratti dagli universi disegnati, anche Diabolik non poteva non tenere conto del rapporto con la particolarità stilistica della fonte e, in particolare, della relazione fra comics e cinema e fra tavola e immagine. Contrariamente a un regista poliedrico come Tim Burton che, ad esempio in “Batman”, non si era limitato a una mera trasposizione, ma aveva ridefinito il contesto e il carattere, arrivando ad ampliarne confini e possibilità, e differenziandosi in parte dalla volontà dei vari Frank Miller (“Sin City”) e Igort (“5 è il numero perfetto”) che avevano fatto delle inquadrature la quasi esatta replica delle pagine delle graphic novel di cui erano stati essi stessi autori, i Manetti non rinunciando al legame con la propria fonte, la citano, per così dire, in una maniera morbida, ovvero presente in modo meno evidente ma allo stesso tempo nascosta dietro uno sguardo che sembra volgersi ad altro. Significativa, a questo proposito, la scelta di colorare il film con cromie appena accennate e con la prevalenza dei neri e dei bianchi che sembra venire dritto dagli albi d’antan. Così è anche l’opzione relativa alla voluta staticità delle figure umane, come pure la decisione di restringere il campo dell’inquadratura, facendo dell’una e dell’altra la filiazione diretta dell’arte madre da cui scaturiscono le storie dedicate al ladro assassino.
A questo bisogna aggiungere che il film capostipite di una serie (proprio in questi giorni è stata annunciata la produzione di altri due capitoli cui però Luca Marinelli sembrerebbe non partecipare) è quello cui spetta il compito più impegnativo perché oltre a introdurre i personaggi, stabilirne le origini (anche se in epoca di prequel la tendenza è quella di non rivelare troppo del passato dei personaggi) e contestualizzarne le relazioni, questi ha anche il compito di fondarne l’universo. Nel caso specifico i Manetti avevano l’onere e l’onore di ricreare il mondo in cui vanno in scena le avventure di Diabolik ed Eva Kant (pensate al peso delle scenografie di Gotham City realizzate da Anton Furst) e della loro nemesi, il mitico ispettore Ginko. Ambientato negli anni 60 nella città immaginaria di Clerville, il Diabolik dei Manetti è perfetto quando si tratta di inventare uno stile coerente alle sue premesse: si adopera più la fantasia della decalcomania e si articola così una topografia che, nella razionalità della sua concezione, frutto di una decomposizione spaziale, nella discontinuità tra i diversi luoghi - il mare, la montagna, la metropoli - sembra riprodurre il perimetro di una scacchiera all’interno della quale Diabolik e Ginko si sfidano muovendo le rispettive pedine. La Clerville del film, con le sue luci uniformi e la sua fredda decolorazione, non poteva che essere nella sua elaborazione vicina a quello delle sorelle Giussani, ovvero più un luogo mentale che fisico.
Da questo punto di vista i protagonisti sembrano esserne la quintessenza, vere e proprie incarnazioni di un mondo senza cuore né pietà, dominato dalle apparenze e dall’apparato (nessuno è chi dice di essere) che a mo' di contrappasso Diabolik si diverte a sbeffeggiare rivoltandogli contro le maschere sociali di cui la bella gente di Clerville si è fatta scudo per realizzare le sue malefatte.
Senza puntare alla somiglianza fisiognomica ma mirando piuttosto all’idea che di loro dava il fumetto, i Manetti lavorano sull’archetipo plasmando i personaggi su caratteristiche e funzioni (il male, il bene, la bellezza) di cui essi si fanno ambasciatori all’interno della storia. La sommatoria finale è favorevole ad alcuni, ad esempio alla figura di Eva Kant (Miriam Leone), la cui algida bellezza riesce a scaldare lo schermo permettendole di conquistare il massimo delle attenzioni da parte del pubblico (a partire dal Joker di Jack Nicholson è il villain a diventare protagonista). Per altri, come nel caso di Marinelli, il lavoro di sottrazione risulta penalizzante, affidato più che altro al carisma dello sguardo e alla presenza fisica (nel cinema fumetto il corpo conta più che da altre parti) che però da soli non bastano a farne una presenza indimenticabile.
Più in generale la nuova versione di Diabolik paga lo scotto di doversi confrontare con una materia già codificata e presente nella mente dello spettatore. A differenza di Mario Bava autore di una (discussa) prima versione di "Diabolik" uscita nel 1968, i Manetti attenuano la loro vena anarchica a favore di un rispetto filologico che rende l’opera godibile ma meno coinvolgente di quello che ci si poteva aspettare.
cast:
Luca Marinelli, Miriam Leone, Valerio Mastandrea
regia:
Manetti bros.
distribuzione:
01 Distribution
durata:
133'
produzione:
Mompracem, Rai Cinema
sceneggiatura:
Michelangelo La Neve, Marco Manetti, Antonio Manetti
fotografia:
Francesca Amitrano
scenografie:
Noemi Marchica
montaggio:
Federico Maria Maneschi
costumi:
Ginevra De Carolis
musiche:
Pivio, Aldo De Scalzi