"C'è un fuoco che vuole esplodere e che non si cura minimamente di ciò che facciamo quassù. Questa massa incandescente è completamente indifferente alle blatte frenetiche, agli stupidi rettili e agli insulsi umani": sembrerebbe un'altra citazione leopardiana e, invece, si tratta delle parole con cui
Werner Herzog sigilla il suo "Into the Inferno", documentario-viaggio che calpesta il suolo rovente e magmatico dei vulcani. Ad accompagnare il regista tedesco è Clive Oppenheimer, vulcanologo dell'Università di Cambridge conosciuto durante la lavorazione di "
Encounters at the End of the World". I luoghi raccontati l'isola di Ambrym, l'Indonesia, l'Islanda, l'Etiopia e la Corea del Nord.
Quello dei vulcani non è un territorio inesplorato dal cinema di
Herzog, che vi si era accostato con il lavoro del 2007 sui ghiacci dell'Antartide, ma ancor prima con il mediometraggio "La Soufrière" (1978), dove lui e la sua troupe si erano precipitati sull'isola di Guadalupa nell'imminenza di un'eruzione annunciata, per incontrare l'unico uomo sottrattosi all'evacuazione. Nel 2016 il medesimo fenomeno naturale ritorna al centro di un documentario, ma questa volta pare che l'argomento sia affrontato in maniera sistematica, rispetto all'esperienza
live di "La Soufrière".
"Into the Inferno", infatti, procede da una tappa all'altra del suo itinerario seguendo principalmente due piste, quella logico-scientifica e quella magico-irrazionalista. La prima è incarnata dalla figura di Clive ed è attenta a evidenziare i progressi e gli strumenti degli studiosi in materia di vulcani; il secondo descrive le credenze popolari e le leggende legate alla loro presenza sulla Terra. All'inizio un capo tribù spiega che il vulcano locale è abitato dagli spiriti dei defunti e che qualcuno ha un filo diretto con esso. Passa una manciata di minuti e Clive ci mostra un apparecchio per il monitoraggio che misura le emissioni di anidride solforosa. Subito dopo assistiamo a un rituale di riconciliazione tra la dea dell'oceano e il demone del vulcano.
Per quanto la voce narrante (di
Herzog) a un certo punto dichiari che è il lato magico a contare veramente per il film, c'è un terzo livello a fare da tessuto connettivo ed è quello della riflessione filosofica sul rapporto uomo-natura. Motivo ricorrente all'interno della filmografia del cineasta di Monaco, qui la natura dal volto «bello e terribile» (per citare sempre dal "Dialogo della Natura e di un Islandese") assume i colori caldi della lava sin dalla scena di apertura, con la macchina da presa che indugia su immagini seducenti e insieme spaventose. Siamo lontani dal deserto mostrato in "Fata Morgana", con quegli spazi sterminati che richiamavano spazi interiori e invisibili, perché al posto dell'introiezione vi sono immanenza, ostilità e indifferenza. I vulcani di "Into the Inferno" negano la metafisica del Sahara ed esprimono una natura
pesante, che è il contrario di quell'aspirazione al volo tipica dei vari eroi herzogiani della leggerezza (Fitzcarraldo, Dieter Dengler, Graham Dorrington, Walter Steiner), oltre che perniciosa e mortifera. L'uomo impiega le proprie energie a razionalizzarla e misurarla, così come instaura con essa connessioni istintive ed emozionali, ma il suo potere distruttivo è al di sopra di tutto questo. Ogni eruzione, dunque, rappresenta un atto di estraneità drammatico tra l'azione della natura e quella degli esseri umani.
Il documentario, si diceva, pare ostentare una sistematicità tematica, eppure non mancano alcune digressioni, tra cui la caccia ai fossili in terra africana e l'incursione nel socialismo coreano tutto propaganda e
buonpensare, per dirla in neolingua. Questa libertà potrebbe apparire come un limite, ma in fondo concede dinamismo alla linea narrativa (non è certo la prima volta che
Herzog segue questo schema in un documentario) e possiede un preciso significato: l'indagine sul fenomeno vulcanico viene impostata come qualcosa di strutturato, capace di imporre ordine, ma l'oggetto sfugge allo stesso occhio che vorrebbe osservarlo e non resta, allora, che guardare anche altrove. Parimenti, la ricerca da parte dell'uomo di instaurare una comunicazione con la natura (attraverso il dialogo scientifico o magico) rimane unidirezionale, perché il magma torna a ribollire nel finale, annullando lo sforzo del mortale e del cineasta.
Se in "
Grizzly Man" il pessimismo di
Herzog aveva una controparte nella visione romantica di Timothy Treadwell, qui non vi è traccia di dialettiche e la visione dell'autore rimane l'unica possibile: la vita umana su questo pianeta si scopre insignificante (da questo punto di vista, la digressione coreana ha una funzione ancor più disfattista), così quanto l'illusione che essa sia in grado di
ascoltare ciò che gli sta intorno. "Madre Natura non chiama, non ti parla, sebbene, a volte, un ghiacciaio possa scoreggiare", come si legge nella
Dichiarazione del Minnesota.