Se Lynch addentrandosi in un orecchio mozzato accede a un altrove coesistente, mostrando lo sdoppiamento del rappresentabile, e se l'intera opera di Cronenberg è un percorso di avvicinamento attraverso l'aspetto irrappresentabile del corpo verso il mistero dell'identità, "Cannibal Love" è un instancabile compiersi di movimenti simili, sopra (la pelle) e da fuori a dentro (i corpi), nel tentativo di individuare la sede delle pulsioni sessuali e la sorgente del desiderio dell'altro. Tentativo vano e vanitoso, finché lo si attua estraendo materia organica, frugandola in laboratorio e vagliando teorie senza esperire il contatto e la sua estrema conseguenza, l'intrusione, sezionando ciò che non andrebbe sezionato ma aperto, penetrato e osservato integro, se solo fosse (cinematograficamente) possibile non schiantarsi sui limiti del visibile.
Ispirandosi dichiaratamente a un cinema più datato ma che si presta a letture altrettanto ambigue e cerebrali, quello di Jacques Tourneur, autore che all'orrore interiore e invisibile (o semmai non-visto) deve parte della propria fama, il film di Claire Denis parla di questo: di impossibilità, ed è un film di interni ed esterni, di vicinanze e lontananze, di repressione e abbandono. L'apertura immortala un provvedimento e un'immagine ricorrenti: una giovane coppia si bacia con passione sui sedili di un'automobile; è evidente che sta per consumarsi l'amplesso, senonché la regia provvede a sottrarlo allo sguardo, dissolvendo al nero prima di concedere la possibilità di guardarlo nella sua normalità filmica come avverrà in seguito con altri pretesi orgasmi ordinari, sempre negati sia in concreto ai personaggi sia all'attenzione dello spettatore. L'inquadratura si riapre sulle acque della Senna, criptica immagine-simbolo anch'essa ripresentata più volte, poi riprende ellitticamente un omicidio in un campo di erba alta a bordo strada e infine sale in quota fra i passeggeri dell'aereo dove viaggiano Shane e June Brown, novelli sposi i cui volti accigliati stonano con le parole di felicità che si scambiano sottovoce. Sono in luna di miele però Shane, medico e scienziato, ha un altro motivo per volare a Parigi: è affetto da una malattia che lui suppone neurologica per colpa della quale non può fare sesso senza che l'eccitazione erotica sfoci in aggressività incontrollabile. Non nell'antropofagia, come designato dal fuorviante titolo italiano, piuttosto in un rapporto carnale esorbitante quello genitale, orale e/o epidermico, incentrato su un altro tipo di penetrazione (con i denti) che schiuda fessure dove non ce ne sono, dalle quali far sgorgare un altro tipo di fluido corporeo (il sangue). Stessa malattia contratta da Coré, sua ex amante, moglie del ricercatore francese che Shane vuole rintracciare a tutti i costi sperando sia stato capace di sintetizzare una cura definitiva.
Claire Denis lavora su due strati di interno, ambientale e corporale. I personaggi abitano e agiscono quasi solo in opprimenti ambienti chiusi, camere e corridoi di hotel, stanzini sotterranei, asettici laboratori, qualora non siano effettivamente carcerati come nel caso di Coré, segregata in casa dal marito per evitare che uccida spinta dai sintomi della malattia; cosa che avviene comunque nel momento in cui la donna seduce un topo d'appartamento, figura metonimica di quel movimento da fuori a dentro che occupa tutto il film. Non soltanto l'ambiente opprime i personaggi: la regia toglie loro il respiro inquadrandoli sempre in primissimo piano e in dettaglio, senza stacchi di montaggio, spogliandoli, costringendoli in cornici soffocanti, separati o schiacciati da ogni contesto spaziale. La vicinanza della macchina da presa ai corpi nudi, spesso tale da astrarli, renderli masse indistinte di linee, forme e colori, risponde alla volontà irrealizzabile di entrarvi, imprimerne su pellicola il didentro senza eviscerazioni splatter, analisi autoptiche (come in "Vital") o simulazioni fittizie spettacolari (le soggettive auricolari di "Ichi the Killer" o vaginali di "Enter the Void"); e se la volontà cinematografica è quella di oggettivare un'immagine, per di più imprendibile, la volontà che si esprime furiosa nei rapporti sessuali mortali di Coré e Shane è forse quella di unificare due organismi distinti, ciò che in fondo conduce alla morte anche i gemelli Mantle di "Inseparabili".
Sia Claire Denis che Shane, interpretato da un angosciatissimo Vincent Gallo, conoscono bene la lontananza irraggiungibile dei propri rispettivi obiettivi. La prima da un lato censura gli amplessi convenzionali, dall'altro indugia senza tagli e senza lesinare in brutalità su quelli "cannibali"; il secondo ripudia il sesso con la neo-moglie a prima vista per timore di ucciderla o infettarla, più velatamente per via della sua inutilità. Regista e personaggio condividono la medesima nervosa frustrazione, tanto reprimendosi quanto abbandonandosi a istinti e sforzi nulli, ancorati a una realtà di pure superfici, la stessa che fa rigurgitare l'occhio del demone Elle Fanning.
A un interno corrisponde un esterno: naturale, spopolato e liberatorio per Coré, ormai schiava della malattia a livello fisico e psicologico; urbano, brulicante e ancora più intollerabile per Shane. Per entrambi, impossibilitati a sopprimere l'impulso sessuale, è terreno di caccia, gratificante per la donna e aborrita dall'uomo, cosicché l'una agogna la prossimità ad altri esseri umani, l'altro la evita. A scanso di equivoci, sempre di prossimità esclusivamente fisica si tratta, allo stesso modo in cui Denis cerca la prossimità alle immagini del corpo e al corpo delle immagini provando a farsi assorbire in una sorta di traspirazione al contrario, sul versante formale scremando le battute di dialogo al minimo indispensabile, usando con estrema parsimonia la bella e malinconica colonna sonora dei Tindersticks e astenendosi dall'uso di schemi e sovrastrutture horror, nonostante il morso sia metafora sessuale primigenia dell'immaginario vampiristico moderno. Tuttavia i protagonisti del film non sono succhiasangue reinventati o trasgrediti e "Cannibal Love" non affronta l'orrore bensì l'amore, i suoi linguaggi, le sue figurazioni, i suoi confini, e lo fa tramite un discorso accorato e un lavorio sui linguaggi, sulle figurazioni e sui confini del corpo, specie quando captato da una cinepresa e riprodotto su uno schermo; e se turba non è a causa delle scene di violenza esplicite e iperrealistiche, ma perché scavando nella (nuova) carne lascia ferite difficili da rimarginare, ponendo quesiti irrisolti se non probabilmente irrisolvibili.
cast:
Vincent Gallo, Béatrice Dalle, Tricia Vessey, Alex Descas, Florence Loiret-Caille
regia:
Claire Denis
titolo originale:
Trouble Every Day
distribuzione:
Cecchi Gori Home Video
durata:
101'
produzione:
Georges Benayoun
sceneggiatura:
Claire Denis, Jean-Pol Fargeau
fotografia:
Agnès Godard
scenografie:
Arnaud de Moleron
montaggio:
Nelly Quettier
costumi:
Caroline Tavernier
musiche:
Tindersticks