"Ricorda che solo se la guardi ti può uccidere!"
Quando a cavallo tra i due millenni
"Blair Witch Project" uscì nei cinema di tutto il mondo in seguito all'allora avveniristico
battage pubblicitario molti ne sminuirono il valore, criticando la povertà del linguaggio cinematografico adoperato e la narrazione a dir poco minimale e soprattutto il sistema di marketing sfruttante l'ingenuità del pubblico di allora e i subdoli (si fa per dire) metodi del Web ancora in piena formazione. A distanza di 17 anni non si può invece che riconoscere al film della coppia Myrick-Sanchez un'influenza storica che ben poche pellicole dell'ultimo ventennio possono vantare. Difficilmente discutibile è infatti l'utilizzo innovativo di un sistema transmediale (dai libri ai videogiochi) e di internet e della diffusione nel cinema mainstream dei concetti di "mockumentary" e "found footage", in seguito vampirizzati dal cinema horror del decennio successivo. Non si può, com'è ovvio, chiedere al secondo sequel del film del 1999 di avere altrettanta influenza, quanto di riuscire a non disperdere totalmente il valore concettuale ed estetico del modello.
Pertanto la decisione di affidare il progetto al talentuoso regista dell'interessante
"You're Next" Adam Wingard di certo garantisce una certa presenza di idee interessanti, rendendo "Blair Witch" superiore alla maggior parte delle opere del suo filone. Fra queste merita un plauso la decisione di frammentare al massimo l'apporto audiovisivo, ricorrendo ad un montaggio molto concitato (opposto alla frequente staticità del film originale) e soprattutto ad una quasi inverosimile varietà di mezzi di riprese (vecchi video, droni, videocamere auricolari, etc...), così come quella di esplicitare la componente spaziale, rendendo la foresta quasi una sorta di personaggio con apposite abilità e caratteristiche, la "Cosa" che da sempre rappresenta nel folklore (
"The Witch" docet). Peccato che tutte queste componenti, adeguatamente sfruttate nella prima parte, vengano pian piano lasciate da parte oppure ricondotte ad elementi ben più stereotipati (come la strega mostruosa e pressoché onnipotente), così come la sceneggiatura affoga in un marasma di banalità (come la caratterizzazione di quasi tutti i personaggi) e sviluppi prevedibili (e spesso neanche così chiari). Per non parlare del ricorso massivo a
jump scare, reso (fino ad un certo punto) sopportabile dall'ironia con cui viene accompagnato.
Ma dove "Blair Witch", che si distingue per un ritmo e una capacità di gestione degli spaventi più che discreta, finisce per assomigliare a tutti gli altri
mockumentary horror che ha finora sorpassato e soprattutto perdere l'inevitabile confronto col modello è l'ambito concettuale. Difatti il valore di "Blair Witch Project", tralasciando per ora la portata storica, stava nel ricondurre come forse mai era stato fatto finora l'orrore agli elementi archetipici di esso e nel ridare valore alle leggende popolari (anche quando platealmente inventate) rendendole motrici non mediate della narrazione orrorifica (similmente al nostrano
"Oltre il guado"). Se il principio estetico necessario per perseguire ciò è stato proprio la totale rimozione di ogni elemento fisico mediante la negazione di visibilità dello stesso, il film di Wingard non si esime, come d'altronde quasi ogni film simile, da esibire ripetutamente le mostruosità che si celano nelle tenebre (forte anche di un budget stavolta ben superiore ai 60 mila dollari), privandole del loro ruolo di
tabula rasa in cui figurare i propri orrori inconsci e archetipici, riducendosi ad un tipico e banale film horror degli anni 10. Le vere leggende non muoiono mai. Ma sarebbe meglio che venissero lasciate tali, nel passato. Invece di essere riprese fino all'ultimo fotogramma.
21/09/2016