Hannah, interpretata da Danica Curcic, è una ginecologa e lavora presso una clinica per l’infertilità. È a sua volta sotto terapia e non accetta i fallimenti precedenti: vuole un figlio o, piuttosto, rifiuta di essere infertile. La propria madre sembra soffrire di alzheimer ed è sempre più distante; pur apparendo in due o tre scene soltanto, il genitore, con il progredire della malattia, induce nella protagonista una corsa contro il tempo, una tensione parallela e contraria verso un altro sistema affettivo. A eccezione di questo elemento, è difficile individuare nella pellicola altri particolari che spieghino l’ossessione di Hannah per la maternità.
Il profilo psicologico della protagonista
C’è per certo un elemento biografico della regista, per sua stessa dichiarazione: come il personaggio principale, anche lei apprende, a un certo punto della propria vita, di non poter restare incinta. McNair, che ha presentato il film al festival di Taormina con il pancione, ha testimoniato di aver registrato, in passato, una diffidenza o esclusione da parte del corpo sociale nei confronti di chi, come lei, non avrebbe potuto generare figli. Tuttavia non è possibile affermare che Hannah, nel film, sperimenti simili ostacoli. Le uniche relazioni della donna riguardano l’ambiente di lavoro, la madre e l’ex compagno; i legami affettivi sono sottili, il contatto umano è assente oppure interrotto sul nascere, perché Hannah guarda anzitutto dentro di sé. Per realizzare questo personaggio, McNair ha intervistato molte donne in cura per l’infertilità. Nessuna di loro, ha dichiarato, era Hannah. Hannah è un personaggio di pura finzione. E le radici della sua ossessione sono ignote.
Il personaggio vive un conflitto, un conflitto donna-biologia che resta sul piano laico, proprio come deve essere. Non ci sono remore religiose, Dio non viene mai tirato in ballo. Le incrinature psicologiche, nella sceneggiatura, restano in forma di emozioni. Le ansie di maternità appartengono al sommerso, non trovano espressione se non in rari e precisi momenti di crisi: ne risultano sensazioni amplificate. La regista, in conferenza stampa a Taormina, ha dichiarato di aver cercato un "linguaggio del dolore" per l’opera; questo linguaggio, così, è quello del non detto, delle sensazioni che piuttosto si ammassano e trovano sfogo nelle urla e nel pianto.
Dalla psicologia alle scelte di forma
In linea con questa compressione, il formato dell’immagine è ridotto. Benché qualche movimento di camera appaia insicuro, le inquadrature di "Baby Pyramid" sono impegnative, indovinate. La cornice è un elemento ricorrente, sia essa una tenda, una porta aperta o un altro elemento murario; come per le immagini social con taglio verticale, sfocate sui bordi sinistro e destro, anche le sequenze di McNair aggiungono un contorno che qui ha altro valore. Questo accorgimento coincide con efficaci geometrie e suggerisce, di volta in volta, un distacco critico oppure una focalizzazione emotiva, un ulteriore passo introspettivo. La cornice, inoltre, ha un valore simbolico; rappresenta un varco, se possibile, un passaggio dal desiderio di maternità alla generazione e, al tempo stesso, per lo spettatore, dal giudizio critico all’empatia per la protagonista.
Spazio e tempo del dolore
Rispetto ai contenuti etici, c’è un film che potrebbe dirsi antitetico a quello di McNair. "In mani sicure" ("Pupille"), incantevole lavoro di Jeanne Herry, ricostruisce la vicenda di una donna che percorre e supera la lunga trafila per ottenere un bambino in adozione. Alla dedizione di Élodie Bouchez, principale interprete, è possibile contrapporre il tormento di Hannah; la prima riconosce che l’oggetto dell’amore sta fuori di sé, intende la maternità come impegno e cura dell’altro, mentre la protagonista di "Baby Pyramid" non guarda oltre la propria cartella clinica.
Curcic è una buona attrice e gestisce bene il carico drammatico; potrebbe reggere sequenze più lunghe, concedersi alla camera per una maggiore osservazione del dolore. Gli stacchi sono frequenti, perché questa è la cifra contemporanea, ovvero tendere alle sequenze brevi in ottemperanza a una sempre più bassa soglia dell’attenzione. In direzione contraria, il montatore Walter Murch – "Apocalypse Now", "Il padrino parte III", "Il paziente inglese" – scriveva di tagliare la scena soltanto dopo che il personaggio abbia terminato un pensiero (e non la battuta). In questo senso, Curcic avrebbe certo sostenuto sequenze prolungate, attraverso il non detto che segue la parola. Così da permettere allo spettatore di instaurare una relazione profonda con il personaggio.
Un esperto in materia di ossessioni come Darren Aronofsky – "Teorema del delirio", "Requiem for a Dream" – avrebbe messo in scena temi affini a quelli di "Baby Pyramid" in modo diverso. Il regista americano dà forma a questo tipo di tormento personale attraverso un montaggio spasmodico e rapidissimo. McNair, invece, lascia che il dramma scorra spontaneo, alzando piuttosto la tensione psicologica con una riduzione dell’ambiente scenico. Se il primo accorcia il respiro frammentando il girato, alzi soffocandolo, la seconda restringe lo spazio attorno alla protaginista.
C’è, quindi, un rapporto tra il trattamento della sofferenza emotiva e il setting. Le riprese avvengono sempre in interni. L’esterno s’intravede, di tanto in tanto, attraverso una finestra o un varco di altro tipo e, non a caso, l’esterno coincide con elementi naturali, ovvero alberi e foglie, il verde. Le ambientazioni sono l’appartamento, lo studio medico in cui Hannah visita le pazienti, l’ambulatorio dove lei stessa riceve il trattamento per l’infertilità, l’auto e pochi altri luoghi casuali. La scenografia chiusa, così, diventa cassa di risonanza del malessere. Hannah è intrappolata in questa scenografia, i passaggi da uno spazio a un altro sono rari, piuttosto sono i personaggi secondari a entrare o uscire, così come le pazienti entrano o escono dallo studio di lei.
Soltanto la sequenza finale si svolge all’aperto, in un bosco. Per quanto non sia dato sapere se la protagonista abbia del tutto rinunciato ad avere un figlio biologico, ha nondimeno superato il varco. Fuori dai luoghi dove il dolore ristagna, Hannah smette di cercare la vita dentro di lei e, almeno per una sequenza, l’ultima, rivolge l’amore verso nuove direzioni.
cast:
Carla Philip Roder, Diem Camille, Henning Valin Jakobsen, Anders Mossling, Danica Curcic
regia:
Cecilie McNair
titolo originale:
Ønskebarn
durata:
87'
produzione:
Nordisk Film Production
sceneggiatura:
Cecilie McNair, Sissel Dalsgaard Thomsen
fotografia:
Sine Vadstrup Brooker
montaggio:
Esben Grundsøe
costumi:
Camilla Nordbjerg
musiche:
Ida Duelund Hansen