"Io sono la morte del reale" faceva dire il regista Al Pacino alla sua creatura digitale nel sottovalutato "S1mOne" (2002). Non sono passati neanche dieci anni e la profezia di Andrew Niccol si è avverata. Più o meno. George Lucas, per primo, e poi Robert Zemeckis, Peter Jackson, James Cameron e infine, anche Steven Spielberg, il più "umano" dei cantastorie hollywoodiani, stanno decretando ormai da tempo l'avvento del cinema post-umano, soltanto per ribadirne, attraverso l'utilizzo della
performance capture, l'insostituibilità della performance attoriale nel nuovo cinema digitale.
Progetto accarezzato da decenni, "Le avventure di Tintin - Il segreto dell'unicorno", ispirato al personaggio dei fumetti creato nel 1929 dal belga Georges Remi (in arte Hergé), è una scanzonata avventura che grazie all'asciutta e ironica sceneggiatura del trio Steven Moffatt, Edgar Wright e Joe Cornish (gli ultimi due autori de "L'alba dei morti dementi" e "Hot Fuzz") riesce a non tradire lo spirito delle strisce originali, mantenendone una rigorosa fedeltà, sia per quanto riguarda i personaggi, i protagonisti come i comprimari (si veda l'usignolo milanese o il maggiordomo Nestore), che provengono tutti dalle tavole di Hergé, che nello svolgimento narrativo (il film di Spielberg prende forma assemblando e mescolando varie avventure del reporter dal ciuffo rossatro, e dovrebbe essere il primo di un'annunciata trilogia). Ma al contempo traghetta il classico personaggio dei fumetti nella nuova era digitale realizzando qualcosa di mai visto. Ecco, Spielberg, al contrario di Zemeckis (e "
A Christmas Carol" ne è l'esempio più lampante) non pare tanto interessato a ribadire l'importanza dell'elemento umano all'interno del suo modo di fare cinema, e benché faccia "interpretare" i suoi personaggi ad un cast ben assortito che include Jamie Bell, Andy Serkis (ormai davvero un esperto in questo campo, tanto che molti auspicano un'Oscar per la sua prova ne l'ultimo "
Pianeta delle scimmie"), Daniel Craig e il duo Simon Pegg - Nick Frost (che prestano le movenze al duo di detective pasticcioni Dupont e Dupond), il film si avvicina molto di più al mirabolante e immaginifico universo dei cartoon che a quello live action.
Girare l'intero film in animazione digitale non ha certo motivazioni "teoriche" in questo caso, ma è una "scusa" per ripensare alle possibilità della tecnica cinematografica. E in questo caso "Le avventure di Tintin" lascia a bocca aperta in più di un'occasione: la macchina da presa disegna geometrie impensabili nel cinema "dal vero" come dimostra lo sbalorditivo inseguimento motociclistico a Dagghar, che si sviluppa interamente in un lunghissimo piano sequenza, che segue, a seconda dei casi, il punto di vista di Tintin, quello del cattivo Sakharine, del suo falco, o quello del cagnolino Milù. Ma anche altre spettacolari sequenze paiono avanguardistiche ed elaboratissime, come la battaglia tra i vascelli in fiamme, il volo del deltaplano attraverso la tempesta o la battaglia conclusiva tra le due giganti gru. Spielberg e il produttore Peter Jackson sognano e accarezzano un nuovo modo di fare cinema, che riesca a trasmettere un rinnovato
sense of wonder alle platee: ogni sequenza è talmente ricca di idee ed elementi visivi da rischiare quasi il collasso visivo (vedi "
Transformers 3") ma Spielberg ha piena padronanza del suo gioco, libero dai legami fisici che appesantivano il suo ultimo "
Indiana Jones" (pellicola che in più di un'occasione ambiva ad essere un pirotecnico cartone animato, come nell'inseguimento nella giungla).
"Le avventure di Tintin" segna perciò il passaggio tra una maniera "classica" di intendere la cultura popolare e l'intrattenimento di massa (e il fumetto di Hergè è forse l'emblema di questo modo di vedere le cose) in cui la più prevedibile (e la prevedibilità è appagante) delle avventure (tra l'altro contraddistinta da una serie di gustosi ammicamenti al cinema passato di Spielberg, dal ciuffo di Tintin che sbuca dall'acqua come "Lo squalo", ai titoli di testa "
vintage" nello stile noir di "Prova a prendermi") è contrapposta ad una messa in scena visionaria, totalmente libera, quasi sperimentale. Con il rischio, sempre dietro l'angolo, di incorrere in un eccesso di consapevolezza e "bravura" che potrebbe far rimpiangere il cinema di carne e sangue (e siamo convinti che il riscontro del pubblico sarà debole). Ciò nonostante, ci troviamo di fronte senz'ombra di dubbio a "Indiana Jones 2.1".