Kenneth Branagh è un regista che ama tradurre la grande letteratura e i miti che la costituiscono nel complesso, oltre che estremamente esigente, linguaggio cinematografico. Negli ultimi anni in particolare, l'attenzione di cui ha beneficiato da parte degli studi hollywoodiani ha condotto Branagh a farsi largo verso un bacino d'utenza prevalentemente giovanile rispetto alle pellicole d'esordio, prima avviando la saga di "
Thor", poi dirigendo un capitolo (assai tedioso) di "Jack Ryan", quindi portando avanti la nuova ondata di classici Disney in
live-action con "
Cenerentola". Non è difficile dedurre che sia proprio questa esperienza maturata soddisfacendo la domanda di questa categoria di pubblico ad aver reso possibile che il rifacimento di "Assassinio sull'Orient Express" gli venisse affidato. D'altronde l'unica ragione per ritenere legittimo il proporre una storia che più celebre non si può - e già nota al pubblico cinematografico grazie al bel film di Sidney Lumet datato 1974 - consiste proprio nel presentare alle nuove generazioni il più celebre tra i gialli di Agatha Christie.
E proprio in quest'ottica di attenersi alle abitudini cinematografiche dei giovani, l'
imprinting estetico che Branagh impone può essere letto attraverso una duplice chiave di lettura. La plasticità delle immagini, il ricorso a inquadrature digitali impossibili e a landscape palesemente falsi da un lato apporta una certa componente favolistica tale da rendere più affascinante e meno cruento un racconto esotico e misterioso, d'altro canto rimanda direttamente al connubio analogico/digitale su cui si muove da anni il cinema di Robert Zemeckis (su tutti, vista anche l'analogia ferroviaria, potremmo citare "Polar Express"), con una curiosa sovrapposizione stilistica con il suo ultimo "
Allied", che similmente a quanto accade qui era improntato su un'immagine "manomessa" e ambigua che lasciasse emergere l'ambivalenza e la falsità dei personaggi che raccontava.
Per il resto, eccezion fatta per gli sforzi notevoli di rendere meno statici possibili i vari passaggi aggiungendo dinamicità al racconto (la valanga, il ponte sospeso, il maldestro tentativo di fuga di uno dei sospettati), "Assassinio sull'Orient Express" di Branagh non gode di ulteriori libertà creative, di fatto negate da una sceneggiatura fatta e finita in partenza. Come nel cult di Lumet, il cast di comprimari è di un rilievo assoluto, in modo che ogni sospettato sia passibile di ricoprire il ruolo di colpevole definitivo. Ma è Branagh che con un Poirot meno logorroico e più solenne rispetto al solito oscura chiunque. Il suo talento è tanto evidente che, ovviamente favorito dal ruolo di assoluto protagonista, fa passare quasi inosservati i caratteristi. Non si tratta di un'eccessiva ostentazione da parte dell'attore: il fatto che Poirot sia di fatto il regista del racconto, colui che determina l'entrata o l'uscita di scena dei personaggi, che li accomoda per un verdetto, che decide se instaurare o interrompere il dialogo, rende il doppio ruolo di Branagh del tutto coerente.
Se quindi l'adattamento è divertente, stemperato (il pessimistico finale, sconvolgente per il protagonista e le sue convinzioni ideologiche, viene già mitigato con un mal posizionato rimando ad un possibile seguito) e ben diretto (con qualche riserva sull'
incipit a Gerusalemme e ai flashback in bianco e nero), meno facile è valutare il film nel suo insieme posto che la sceneggiatura era pronta e che questa versione di fatto non aggiunge alcunchè di significativo ad una storia il cui colpo di scena si riduce al più classico segreto di Pulcinella. Probabilmente il verdetto definitivo lo darà proprio il pubblico giovane a cui il film è rivolto.