Ondacinema

recensione di Giancarlo Usai
8.5/10

In diverse occasioni Richard Linklater ha negato una sua passione per la filosofia, sostenendo di essere stato sempre affascinato più dalla letteratura e dalla critica letteraria e di aver improntato a un approccio in tal senso il suo modus operandi al cinema. Così, insomma, si spiegherebbe il profilo più marcatamente lirico delle sue sceneggiature, la cura del dialogo, la scelta del lessico, la capacità di caratterizzare come pochi altri autori i suoi personaggi anche per le loro peculiarità espressive. Difficile però credere che, accanto all'amore per i suoi poeti e romanzieri preferiti, il cineasta statunitense non abbia affiancato un puntuale studio di alcuni dei più importanti pensatori che hanno sviscerato il concetto di tempo nella loro produzione filosofica. Non sappiamo dunque quanto inconsapevolmente sia accaduto, ma che Linklater sia ormai annoverabile fra gli intellettuali della nostra contemporaneità capace di affrontare attraverso i film un'analisi sulle regole del tempo pare una constatazione ormai indiscutibile.

Martin Heidegger sosteneva che il tempo fosse per sua stessa natura un indizio dell'esistenza dell'uomo, un'esistenza che acquisiva valore proprio in quanto attraversava delle età mutevoli, in continuo divenire. È probabilmente il filosofo tedesco colui che più di tutti ha ispirato la filmografia di Linklater o, per lo meno, questa ultima parte. In principio era il sogno, infatti: i suoi primi lungometraggi erano improntati a quella perdita di connessione con il reale che spinge lo spettatore ad addentrarsi nei sentimenti di nostalgia e malinconia verso il passato irraggiungibile attraverso un misto di onirico e di fantasia. Poi si è passati a un'evoluzione della riflessione in senso materico; in questo caso la trilogia dei "Before..." è l'emblema assoluto: ogni singolo attimo conta, ogni momento catturato è per definizione fondamentale ed essenziale. Ecco allora che la macchina da presa non deve barare: essa deve riprendere l'istante di vita per la durata effettiva di cui è costituito. In quel lasso temporale, che sia una notte a Vienna, novanta minuti a Parigi o un weekend in Grecia, la vita si sprigiona in tutto il suo significato più autentico.

Infine, con le ultime opere rilevanti ("Boyhood" e "Tutti vogliono qualcosa"), il tempo diventa inesorabile e Linklater, maturando, comprende l'impossibilità di fermarlo anche al cinema. E allora a nulla vale sospendere l'incredulità del pubblico, ci si deve lanciare in un lavoro di totale trasparenza: gli anni passano e lasciano il segno, nel fisico e nella psiche degli esseri umani. In "Apollo 10 e mezzo", complice forse la drammatica parentesi della pandemia, l'arte di Linklater riavvolge il nastro e torna alle origini, a una dimensione sognante in cui realtà e immaginazione si confondono e, anzi, la verità si può plasmare attraverso il ricordo. Nella battuta finale che il papà del protagonista pronuncia nell'atto di metterlo a letto dopo aver assistito alla diretta televisiva dell'allunaggio del 1969 c'è il senso generale di questo nuovo, importantissimo tassello di una carriera ineguagliabile: la memoria permette di alterare i ricordi, possiamo scegliere di tenere a mente ciò che vogliamo e, viceversa, eliminare ciò che non ci fa piacere ricordare. Non è forse questo il processo cui assistiamo in presa diretta attraverso il racconto di quell'estate texana, in cui la voce fuori campo di uno Stanley adulto ci descrive le gesta spensierate di quei sei fratelli e dei loro amici? Ma Stanley non ci racconta solo di quelle semplici ed esilaranti avventure, arricchisce il racconto con un imbroglio spudorato, rievocando una sua missione segreta per conto della Nasa, mandato in avanscoperta prima dell'Apollo 11 a fare una ricognizione sulla Luna. Lo sbarco sul nostro satellite, vissuto attraverso gli occhi di un ragazzino, diventa allora una sbalorditiva missione in prima persona, più che un freddo documentario in bianco e nero da vivere sul piccolo schermo. La trovata manipolativa di Linklater si arricchisce di un prodigioso gioco di montaggio curato dalla straordinaria Sandra Adair che, alternando le immagini reali di repertorio alla finzione immaginata dal piccolo protagonista, contribuisce a creare un triplice piano di narrazione che la sceneggiatura di Linklater riesce a gestire con naturalezza sorprendente: la Storia, la storia e il sogno si alternano in "Apollo 10 e mezzo" ridando dunque dignità a quell'importante procedimento mnemonico che è la trasfigurazione dei ricordi, arricchiti di esperienze mai vissute, sottratti alla banalità dell'ordinario e trasformati in fantastiche esperienze. C'è un che di burtoniano in questa ultima svolta di Linklater, un dolce rifiuto della quotidianità a favore di una realtà alternativa più bella e luminosa. L'altro modello è senza dubbio Frank Capra, ma su questo nome c'è meno da stupirsi, l'ombra del Maestro ha sempre aleggiato sulla filmografia linklateriana.

Tempo e gioventù, i due pilastri della narrazione del regista texano. Che parli di infanzia, adolescenza o passaggio all'età adulta, il suo cinema è pieno di ragazzi e ragazze. Non un'ossessione, né una scelta caratterizzante; anche in questo caso, c'è una riflessione esistenziale che procede di film in film, attraversando le fasi della crescita e della maturazione. Sono i giovani, infatti, i principali protagonisti di quella sperimentazione del tempo di cui parlavamo. Quando gli venne chiesto quando ci sarebbe stato un quarto capitolo delle avventure di Celine e Jesse, Linklater disse che non era in programma, quello che gli interessava raccontare era già stato raccontato. Una volta diventati uomini e donne fatti e finiti, i personaggi delle sue opere cessano di avere una missione, prendono atto che lo scontro con il tempo che passa è ormai inutile, la clessidra vincerà nettamente. Ecco perché anche in "Apollo 10 e mezzo" gli adulti sono contorni sfocati sullo sfondo, voci indistinte fuori campo e le strade e le case di Austin si affollano di ragazzini e ragazzine. Il regista li mette in scena senza filtro, con quella sua impareggiabile sensibilità nel catturare la poesia del banale, la ripetizione di momenti assolutamente normali, privi di climax artificioso o tensione crescente. Il teen movie di Linklater è una continua sfida alla nostra attenzione e alla nostra partecipazione emotiva alle vicende descritte: siamo lontani da quel flusso viscerale di grandi avventure di "Licorice Pizza" o dalla messa in onda filtrata attraverso il registro surreale di "Moonrise Kingdom" o, ancora, dalla drammaticità delle paturnie infantili che avevano reso i film di John Hughes dei piccoli trattati sui divari generazionali dell'America anni 80. Qui la sfida è affezionarsi al quotidiano, al racconto che è naturale e al tempo stesso esistenziale. Lo stile di scrittura di Linklater ancora una volta costruisce un racconto radicale nella sua diversità da qualsiasi altro approccio presente al momento nel cinema statunitense: l'assenza quasi totale di dialoghi, la voce off del protagonista narrante (è Jack Black nella versione originale) che si lancia in una sorta di monologo interiore che accompagna per tutta la durata dell'opera, il minutaggio dedicato al nulla di rilevante messo in scena nella prima ora. Si tratta di elementari momenti di divertimento, piccoli espedienti per sfuggire alla noia dell'estate, rievocazione di abitudini che hanno segnato il passaggio dagli anni 60 agli anni 70.

A tutto questo si aggiunge il ritorno al rotoscopio, per la terza volta nella carriera di Linklater. Aggiornata alle tecniche attuali, che rendono la colorazione animata di scene girate sul set effettivamente di una precisione millmetrica nel cogliere il dettaglio visivo, la tecnica utilizzata è l'unico strumento possibile per realizzare un'opera del genere. Anche su questo occorre soffermarsi. Le scelte stilistiche di Linklater non sono mai capricci o frutto di voglia di stupire. I registri narrativi o le tecniche di ripresa, di volta in volta, sono dettate da una stringente esigenza di coerenza con la materia affrontata. E se in "Waking Life" l'animazione in rotoscope assecondava l'indagine sul sogno (e a quei tempi quel particolare modo di scontornare i bordi delle figure assumeva un senso diegetico oltre le possibilità tecnologiche dell'epoca) e in "A Scanner Darkly" seguiva in modo naturale il mondo immaginato da Philip K. Dick, in "Apollo 10 e mezzo" assume un valore di autorevolezza della messa in quadro. La vicenda del piccolo Stan che viene ingaggiato dalla Nasa, che entra nella navicella, che fa addestramento nel centro di Houston e poi parte alla volta della Luna, avrebbe perso di credibilità se mostrata in formato live action. Ma è così, viceversa, che quei flash di una realtà mai accaduta possono affiancarsi alla vita vera e confondersi con essa. Pensato e realizzato per una piattaforma streaming, "Apollo 10 e mezzo" è comunque cinema nella sua purezza, ancora una volta senza compromessi e senza trucchi di sorta. Tutto ciò che vediamo è falso, eppure è tutto così autentico.


20/04/2022

Cast e credits

cast:
Zachary Levi, Jack Black, Glen Powell, Josh Wiggins, Lee Eddy


regia:
Richard Linklater


titolo originale:
Apollo 10½: A Space Age Childhood


distribuzione:
Netflix


durata:
97'


sceneggiatura:
Richard Linklater


fotografia:
Shane F. Kelly


montaggio:
Sandra Adair


Trama
Stanley, un uomo di mezza età, narra le proprie memorie di quando aveva nove anni, e gli Stati Uniti d’America si preparavano all’allunaggio: un’estate da passare con una famiglia numerosa, in un quartiere suburbano di Houston, con un padre che lavora alla NASA (ma in un ufficio burocratico). Così il piccolo Stan inizia a fantasticare, e a immagine di essere lui, a sua volta, inviato nello spazio, alla conquista dell’unico satellite naturale della Terra...