Ondacinema

recensione di Matteo Zucchi
7.5/10

All We Imagine as Light


"Quando ero nelle tenebre credevo di poter immaginare come fosse la luce.
Ma non è vero. Dal buio non puoi capire com’è la luce."

Dal film

 

Presentato al Festival di Cannes 2024 come primo lungometraggio di fiction della regista indiana Payal Kapadia, "All We Imagine as Light" opta fin dalle prime sequenze per uno stile simil-documentario, offrendo vari scorci della città di Mumbai e della sua popolazione, mentre voci fuoricampo femminili descrivono la città e il loro rapporto con essa. La scelta può sembrare sorprendente, soprattutto se si è assecondato il sottotitolo italiano da commedia romantica, ma è in realtà perfettamente coerente col percorso delle giovane regista, che aveva già esordito alla Croisette con il documentario "A Night of Knowing Nothing" nel 2021. Un’occhiata più attenta all’opera prima di Kapadia finisce d’altronde per rimarcare la parzialità della divisione fra documentario e fiction, in particolar modo all’interno della produzione della cineasta indiana, in quanto già in quell’opera la descrizione delle proteste studentesche contro il sistema delle caste si accompagnava alla ricostruzione della relazione fra due studenti universitari del Film and Television Institute of India, la quale era in realtà il motore, parzialmente finzionale, della componente documentaria della pellicola.

In "All We Imagine as Light" le sezioni di fiction finiscono invece per riempire quasi interamente la durata del film, limitando l’elemento documentario all’incipit, per chi scrive in maniera non casuale, e in parte nello stile con cui la regista decide di narrare le vicende di tre donne di età diverse, immerse e a volte sormontate dalla metropoli. Payal Kapadia infatti pedina le sue protagoniste mentre si muovono nel posto di lavoro e nei loro modesti domicili con un approccio quasi neorealista, omaggiando così anche la più affermata tradizione del cinema d’autore indiano, il cui esempio più noto è Satyajit Ray. La camera mobile e il montaggio frammentario riconducono in maniera più netta il film nella modernità cinematografica, evidente nella struttura episodica della narrazione, in cui le vicende delle infermiere Prabha, più matura, e Anu, più giovane e impulsiva, e della cuoca del ristorante dell’ospedale dove lavorano Parvaty, si intervallano per intrecciarsi nei luoghi condivisi, come la mensa o l’appartamento di Prabha e Anu, senza arrivare mai individualmente a una conclusione definita. Centrale è la tematica della solidarietà femminile, con le tre che si sostengono reciprocamente in una società maschilista e spesso intollerante, dapprima in modo incerto e poi con sempre maggiore convinzione, fino al ritorno alla terra materna di Parvaty, la regione meridionale di Ratnagiri, dove le quasi altrettanto significative trame "sentimentali" parallele delle tre donne trovano una sorta di chiusura.

Il discutibile sottotitolo italiano "Amore a Mumbai" pone enfasi su una componente in effetti rilevante di "All We Imagine as Light", ovvero le relazioni delle co-protagoniste coi loro significant other, le quali però si distanziano dalla rappresentazione di vicende sentimentali più convenzionali: Anu è infatti segretamente fidanzata con un ragazzo musulmano, Shiaz, e cerca di portare avanti la relazione nonostante l’opposizione della famiglia (e dell’intera società nell’India di Narendra Modi, prevedibilmente), Prabha non vede e non sente ormai da anni il marito trasferitosi in Germania per lavoro, e a cui ha deciso comunque di restare fedele, nonostante le avance di un superiore, Parvaty è ormai vedova del marito, la cui incuria ha costretto la donna a vivere in un appartamento derelitto, da cui ora la donna è stata sfrattata perché formalmente non residente. L’affresco sociale dell’India contemporanea, della sua stratificata società e della discriminazione che ancora affliggono gli ultimi in particolar modo nelle grandi città, non si limita perciò a fungere da sfondo alle vicissitudini sentimentali delle protagoniste ma le nutre e permette loro di divenire qualcosa di più che individuale, delle parabole quasi universali, quanto meno all’interno del contesto indiano.

Così facendo lo stile che modernizza l’approccio quasi neorealista alla rappresentazione delle realtà riesce ad attualizzare quel modo di fare cinema a una società ormai diversa, la cui atomizzazione e stratificazione si riflette appunto nella struttura episodica del racconto, che evita la focalizzazione su un singolo protagonista cara a buona parte del neorealismo classico ma interpreta la molteplicità del reale attraverso il filtro di più punti di vista che si intersecano, offrendo così una spaccato più complesso di Mumbai e dell’intera India contemporanea. Anche da questo punto di vista il cinema di Payal Kapadia si rivela eminentemente politico, narrando la stratificazione e varietà della società in contrapposizione al monolitico progetto nazionalista hindu di Modi e del Bharatiya Janata Party. Questi percorsi estetici, narrativi e tematici trovano il loro culmine nella sezione finale, in cui il grigio, il nero e le luci al neon di Mumbai, così centrali nella prima parte della pellicola e nella sua estetica che a tratti ricorda il manierismo à la New Hollywood in voga in anni recenti, vengono repentinamente sostituiti dal verde e dal marrone dei boschi, dal giallo della spiaggia e dall’intenso blu dell’oceano, in un ribaltamento cromatico che prelude al ribaltamento narrativo e sociale imminente.

Questa torsione narrativa prefinale non può che ricordare a chi scrive le repentine evoluzioni narrative e stilistiche tipiche del cinema d’autore contemporaneo più libero, come le sperimentazioni linguistiche del collettivo argentino El Pampero Cine oppure il cinema indefinibile di Apichatpong Weerasethakul, seppur all’interno di una produzione più convenzionale nel contesto del cinema art house (come si evince anche dal numero di case produttrici e paesi coinvolti). In maniera simile a quanto avviene in pellicole come "Trenque Lauquen" di Laura Citarella e "Memoria" di Weerasethakul (ma ciò succedeva anche in film precedenti del regista thai, come "Tropical Malady"), in "All We Imagine as Light" la fuoriuscita dal contesto urbano, civilizzato, e l’immersione nell’entroterra rurale provoca un completo cambio di prospettiva sulla storia e su come questa viene raccontata. È infatti nelle campagne del Ratnagiri che le relazioni mediate, quasi feticistiche, delle tre protagoniste coi loro cari (le costanti comunicazione fra Anu e Shiaz via telefono, oggetto sempre tenuto stretto dalla ragazza, il cuociriso apparentemente inviato dalla Germania dal marito di Prabha, che lei abbraccia in un momento di sconforto, le carte lasciate dal marito che Parvaty ispeziona per trovare un documento che attesti la proprietà dell’immobile da cui sta venendo sfrattata e che diventano un pretesto per ricostruire la loro vita assieme) possono finalmente trovare modo di esprimersi in maniera fisica, finalmente libere dalle mistificazioni della metropoli (d’altronde definita nel film la "città delle illusioni").

Fra le incisioni di un’antica grotta Anu e Shiaz hanno finalmente un amplesso, e da quel momento appaiono insieme in quasi ogni inquadratura, mentre Prabha salva sulla spiaggia un naufrago con la respirazione bocca a bocca, per poi riconoscere in lui il marito che non vedeva da anni, il cui contatto fisico deciderà poi di rifiutare per poter finalmente chiudere la relazione dopo così tanto tempo, riacquistando finalmente la libertà silenziosamente agognata per tutta la pellicola. Quest’imprevista svolta narrativa finisce per rinsaldare il tono surreale, quasi onirico, della narrazione  nell’ultimo terzo della pellicola, in cui il giorno libero che Anu e Prabha si sono prese per aiutare Parvaty a tornare nel villaggio nativo si dissolve in un eterno presente in cui gli avvenimenti si susseguono senza una consequenzialità forte. Il film di Payal Kapadia si espone con questa scelta a varie critiche sotto il profilo narrativo, abbandonando alcuni spunti rilevanti nelle sezioni precedenti e rallentando ulteriormente il ritmo già compassato del racconto, ma dimostra così anche il coraggio della sua giovane autrice nel voler esplorare col suo film non solo modelli sociali (la convivenza femminile) e politici (la frequentazione del gruppo politico socialista) diversi da quelli egemonici ma anche modelli di narrazione e rappresentazione, sottolineando la propria ricettività alle principali sperimentazioni del cinema d’autore contemporaneo.

Sebbene "All We Imagine as Light" non adotti la radicalità dei modelli succitati dimostra comunque che nella spesso ignorata scena indipendente indiana vi sono interpreti che propongono con efficacia un cinema alternativo rispetto a quello prodotto dalle varie Bollywood, Tollywood, Mollywood, le consolidate tradizioni cinematografiche nelle principali lingue indiane. Il film di Kapaya infatti si pone al di là di queste rigide divisioni industriali, e più vicino al cinema indipendente occidentale, anche dal punto di vista linguistico, con l’alternanza fra l’hindi lingua nazionale, il marathi locale di Ratnagiri e il malayalam delle immigrate del sud Anu e Prabha (e del dottor Manoj che vorrebbe avere una relazione con lei), rappresentando le succitate stratificazione e molteplicità della società indiana anche dal punto di vista linguistico. Forse è proprio la moderazione nella sperimentazione che ha permesso all’opera di Kapadia di farsi notare all’interno del concorso del Festival di Cannes (primo film indiano a competere in 30 anni) e di vincere l’agognato Grand Prix, provando che vi è luce fra le tenebre della produzione culturale indiana nell’epoca dell’oscurantismo Hindutva. Sotto le luci al neon del chiosco sulla spiaggia, le quali uniscono il villaggio nel Ratnagiri e la metropoli di Mumbai, la nuova famiglia composta da Prabha, Parvaty, Anu e Shiaz si trova a contemplare l’oceano intenta a riflettere, come noi, su cosa attenderà questo nuovo mondo appena venuto alla luce.


26/10/2024

Cast e credits

cast:
Kani Kusruti, Divya Prabha, Chhaya Kadam, Hridhu Haroon, Azees Nedumangad, Anand Sami


regia:
Payal Kapadia


titolo originale:
All We Imagine as Light


distribuzione:
BiM Distribuzione


durata:
115'


produzione:
Petit Chaos, Chalk & Cheese Films, BALDR Film, Les Films Fauves, Pulpa Film, Arte France Cinéma


sceneggiatura:
Payal Kapadia


fotografia:
Ranabir Das


scenografie:
Piyusha Chalke, Shamim Khan, Yashasvi Sabharwal, Yashasvi Sabharwal


montaggio:
Clément Pinteaux


costumi:
Maxima Basu


musiche:
Topshe, Dhritiman Das


Trama
L'infermiera Prabha lavora in un grosso ospedale di Mumbai, dove si è costruita la fama di lavoratrice instancabile. Nella medesima struttura lavorano anche la sua conquilina Anu, giovane infermiera che come lei proviene dal Kerala, e la più matura cuoca Parvaty. Vari eventi, legati in parte agli uomini della loro vita, turberanno la quotidianità delle tre donne, rendendone le loro storie sempre più strette, con la metropoli indiana sullo sfondo.