"Non puoi vincere una corsa contro il tempo. Io sono inesorabile."
"Alice attraverso lo specchio". Ovvero "Viaggiare nel tempo for dummies". Infatti il film di James Bobin mette subito da parte gli elementi originalmente carrolliani, come lo spunto (a stento definibile tale) tratto da "Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò", e trasforma il sequel del vituperato film di Burton in un'opera focalizzata sulla ben poco vittoriana idea dei viaggi nel tempo (Dickens e Wells permettendo). Così come
"Alice in Wonderland" rielaborava l'immaginario fantasy degli anni '00 alla luce (presunta) dello stile e della poetica di Tim Burton, il film presente riprende suggestioni più anni '70-'80 (facile citare
"Ritorno al futuro") e le inserisce in un contesto che però è deteriormente tutto contemporaneo. Contemporaneità che con film come
"Looper" e serie come "Doctor Who" e
"Lost" ha già detto molto (forse tutto) sulla già citate tematiche spazio-temporali e sul concetto di "censura cosmica". Motivo per cui non si può soprassedere all'approccio a dir poco
naive non solo della giovane protagonista (discretamente interpretata dalla Wasikowska) ma anche del regista e della sceneggiatrice Linda Woolverton, la cui opera raggiunge l'apice della sua prevedibilità proprio quando ha a che fare con questa presunta tematica portante.
Se a livello narrativo e contenutistico il film non si dimostra all'altezza nemmeno di modest(issim)e pretese, anche per quanto riguarda gli altri ambiti della produzione non vi è molto di cui esaltarsi. L'
overacting generale potrà pure favorire la creazione di una dimensione stralunata, come ci si aspetta da un'opera di tale matrice, ma risulta immotivato nel contesto realistico dell'inizio o della conclusione, non fosse altro che creare macchiette e quindi dirigere con tali accorgimenti la facoltà di giudizio dello spettatore su storia e personaggi. In fin dei conti il più sopportabile e l'unico che riesca (forse) a strappare qualche sorriso è il Tempo di Sacha Baron Cohen, il quale appare come il personaggio più vicino alla tridimensionalità (sicuramente più che il piano visivo). Quest'ultimo si giova di maestranze rinnovate (si esclude probabilmente la più capace di tutte, la costumista Colleen Atwood) ma che giungono ad un risultato pressoché identico a quello di "Alice in Wonderland". Con la differenza che il regista di
"Big Fish" riusciva ancora a creare qualche sequenza visivamente valida e che il fatto che gli effetti speciali digitali (palesi alla maniera burtoniana,
ça va sans dire) siano quasi identici a quelli di sei anni fa dovrebbe allarmare coloro che li realizzano.
In definitiva "Alice attraverso lo specchio" si dimostra degno erede del suo predecessore, un'opera sviluppata incentrandosi soprattutto su un aspetto visivo ridondante e in quest'occasione pure ripetitivo, in cui ogni elemento di interesse scivola via dopo pochi minuti, lasciando allo spettatore la facoltà di godersi il film solamente se capace di non considerare i
wormhole di scrittura che ne infestano lo svolgimento e di farsi piacere questa visione
bastarda del mondo creato (meglio, ideato) da Lewis Carroll. Certo, anche Antonin Artaud traducendo "Themes with Variations" ed altri estratti dalle opere dello scrittore inglese compì un lavoro di
tradimento del materiale di partenza ma nell'ottica dell'attualizzazione del potenziale decostruttivo delle glossolalie e dei giochi linguistici di quello, vero e proprio anticipatore della "Catastrofe del Linguaggio". L'adattamento (si fa per dire) organizzato dalla Disney invece non fa altro che neutralizzare (si ricordi che le avventure di Alice vengono cronologicamente definite e che ogni figura ha un suo nome preciso) e ridurre il carattere eversivo della poetica dell'autore del Cheshire ad un semplice
gioco, come si configura tutto il film di Bobin. Sventure della postmodernità. In ciò "Alice Through the Looking Glass" finisce per assomigliare alla stragrande maggioranza dei prodotti della
major hollywoodiana (e dell'intero panorama mainstream coevo): normalizzati, rassicuratori (la "borghesizzazione" degli ideali della Alice disneyana è enfatizzata e non negata nel finale pseudo-femminista) e inesorabilmente capaci di sembrare anche altro. Ma forse è sempre stato così. Altro che l'inesorabilità del Tempo. L'inesorabilità del capitale.