Tutti i film di Robert Zemeckis ci parlano di viaggi nel tempo; il tempo è la vera ossessione del regista americano. I paradossi temporali della serie "Back to the Future" sono solo la punta dell'iceberg. C'è la storia dell'America in divenire vista dagli occhi di un
idiot savant ("Forrest Gump"), che letteralmente viaggia attraverso gli anni e la Storia, c'è il naufrago di "Cast Away" che del tempo e la puntualità ha fatto il suo lavoro (dirige un azienda di corrieri espressi) e la sua priorità, ma verrà costretto da un disegno superiore a prendersi tutto il tempo necessario per riconsiderare la sua vita. Ci sono le vanesie protagoniste de "La morte ti fa bella" che vorrebbero rimanere belle e giovani per l'eternità e finiranno per trasformarsi in zombi senz'anima. Ci sono stati esercizi di stile per replicare con esattezza millimetrica il cinema dei tempi passati (
Hitchcock ne "Le verità nascoste", il cinema d'avventura degli anni '30-'40 in "Romancing the Stone"). C'è il tentativo (per molti fallimentare), ambizioso e più volte imitato e affinato (si veda il recente "
The Congress"), di cristallizzare nel tempo la performance dell'attore, imprigionandola, per sempre perfetta e replicabile all'infinito, nelle briglie della
performance capture e del computer (stiamo parlando della trilogia composta da "The Polar Express", "Beowulf" e "
A Christmas Carol", ma in precedenza anche in "Chi ha incastrato Roger Rabbit?").
Il cinema di un regista visionario che dietro la patina da
blockbuster non ha mai smesso di parlare del Cinema e dell'America (anche nell'ultimo, sottovalutatissimo, "
Flight", presa di coscienza da parte di un antieroe drogato e alcolizzato, che vede il suo paese "sottosopra"). Ma torniamo a Marty, Doc e ai viaggi nel tempo a bordo della mitica Delorean. Siamo nel 1985, Zemeckis è reduce dal buon successo commerciale di "Romancing the Stone" ("All'inseguimento della pietra verde"), e complice il collega-amico Steven Spielberg (per cui aveva scritto in precedenza il folle "1941 - Allarme a Hollywood") si fa produrre un progetto ideato da lui e Bob Gale, "Ritorno al Futuro", appunto. Che diventerà, a sorpresa, il maggiore incasso di quell'anno, assurgendo immediatamente al rango di classico contemporaneo. "Back to the Future" è un concentrato della cinematografia
postmoderna, nello stile di quegli anni e delle produzioni Spielberg
eighties, è un prodotto
mainstream che mescola con libertà assoluta e ironia beffarda i generi più disparati, la fantascienza, la commedia, il filone nostalgico (erano anche gli anni de "Il grande freddo" e "Breakfast Club"), l'action, ma anche una spruzzata di horror e musical. Insomma un cocktail indefinibile e freschissimo, che travolse letteralmente il pubblico di allora, così come continua a mietere proseliti tra le nuove generazioni (ricordiamo i recenti eventi-raduni promossi da Nexo Digital che hanno riportato in sala migliaia di nuovi e vecchi fan della saga).
"Ritorno al futuro" è un meccanismo ad orologeria che non sbaglia un colpo, in cui tutto ingrana alla perfezione, dove ogni elemento miracolosamente va al suo posto lasciando il pubblico in uno stato di totale soddisfazione. Se sequenze e battute passate alla storia non si contano, "Back to the Future" è un film che si ama incondizionatamente perché osa riscrivere la storia in chiave ottimistica e personale, un vero feelgood movie, ma sincero, non ruffiano o compiacente. In linea con la poetica di Zemeckis, in "Ritorno al Futuro" cambiare la propria (grigia) esistenza modificando il passato è possibile, non è un crimine da condannare. La famiglia McFly è un disastro, a cui nemmeno il disadattato teenager Marty sembra poter sfuggire. Lo zio è in galera, i genitori non si amano più, passano le serate davanti alla tv senza più dirsi una parola. Papà George è schiavo del temibile capo Biff, preda delle sue prese in giro dai tempi del liceo. E Marty non è proprio uno studente modello, rockettaro e sempre in ritardo alle lezioni, rischia di far la fine dei genitori. Il suo unico amico è uno scienziato mezzo svitato, Doc Brown, che però in mezzo a tante strambe invenzioni fallimentari ne ha centrata una: una macchina del tempo ricavata all'interno di una lussuosa Delorean, che in effetti funziona sin troppo bene, e che spinta alla velocità di 88 miglia orarie, trasporta Marty indietro nel tempo di trent'anni, nel 1955, impossibilitato al ritorno (servirebbe qualche barra di plutonio, o magari la scarica di un fulmine). Ed è nel segmento ambientato nel passato che il regista scatena tutta la sua fantasia revivalista, rappresentando degli Usa pacati, ottimisti e totalmente fasulli (con cognizione di causa, si veda la battuta su Reagan presidente), di cui la nostra realtà è uno specchio deformato. Nel 1955 in cui arriva Marty è ancora possibile la realizzazione di sé, l'american dream è ancora una fiamma che arde. Certo, con una spintarella di Marty, ma è possibile modificare il proprio destino, crearselo su misura, più rigoglioso e felice. Marty fa ritrovare il coraggio al timido e succube padre, facendo scoccare l'amore tra lui e la futura madre Lorraine, da una lezione al teppista Biff rimettendolo al suo posto, salva la vita all'amico Doc mettendolo in guardia da pericolosi terroristi libici, perché anche se il continuum spazio temporale non va modificato per una volta si può pensare "chi se ne frega". E infine, dopo aver fattto scoprire il rock 'n roll a Chuck Berry suonando "Johnny B. Goode" al ballo scolastico, torna nella sua epoca, e alla sua famiglia, che finalmente ha ottenuto il successo e la ricchezza meritate.
Tutto sommato "Ritorno al Futuro" è la più classica parabola sul
self made man americano, imbastardita con viaggi nel tempo e paradossi a non finire, una riflessione semi seria sul destino dell'uomo, che restituisce una visione ottimista del trascorrere del tempo (purchè si bari, come fa Marty, e come fa il regista). A ben pensarci, benché Zemeckis abbia raffinato il suo discorso sul tempo nei film successivi, magari impreziosendolo con una cornice drammatica-religiosa come in "Contact", un film non gli è mai riuscito così bene. Certo, merito anche di un cast sfavillante in cui tutti sembrano nati per interpretare il rispettivo ruolo (Michael J. Fox, Christopher Lloyd, Crispin Glover, Thomas F. Wilson) e che difatti sono tutt'ora ricordati quasi solo per questo film, di un'epica colonna sonora di Alan Silvestri diventata immediatamente celebre, così come la canzone di Huey Lewis and the News che accompagna i titoli di testa, "The Power of Love". Come dicevamo, ogni elemento che si incasella al suo posto, la perfezione.
Un discorso a parte meriterebbero i due sequel, che vanno a comporre nelle intenzioni del regista una vera e propria trilogia da gustare tutta assieme (gli eventi accadano a pochi minuti di distanza dal film precedente). Anche se non possiedono la freschezza del prototipo, le parti II e III di "Ritorno al Futuro" rappresentano il primo esperimento di sequel girati
back-to-back e distribuiti l'uno a distanza di un anno dall'altro. Un tentativo all'epoca premiato da incassi buoni ma non esaltanti, in parte rifiutato dal pubblico (mentre oggigiorno gli esempi di prodotti di questo tipo, da "Matrix" ai "Pirati dei caraibi" per finire con i vari "
Harry Potter" e "
Hunger Games" con i film splittati senza motivo in due episodi per raddoppiarne gli incassi), ma che rivisto oggi mostra tutta la sua complessità. Se la Parte III gioca facile trasportando l'azione nel 1885 e contaminando il già affollato mix di generi con il western, è il primo sequel a portare il discorso metacinematografico a vette di complessità narrative viste di rado: in sintesi, il film precedente è rivissuto dal Marty del futuro, che torna nuovamente nel 1955 per recuperare un almanacco sportivo causa di gravissimi problemi, che -letteralmente- rivede intere sequenze del primo film da un nuovo punto di vista. Oltre all'innovazione tecnica operata da Zemeckis e dai suoi collaboratori che permette di far interagire nella stessa sequenza lo stesso attore moltiplicato, il discorso sui paradossi temporali e sui limiti del racconto cinematografico è portato alle estreme conseguenze. Zemeckis ci dice in filigrana che lo spettatore potrebbe potenzialmente assistere continuamente alla ripetizione infinita dello stesso film, e non accorgersene. Tutta questa consapevolezza si traduce nel capitolo più dark e concettuale della trilogia, in cui Zemeckis ribalta anche la visione ottimistica della prima pellicola. Se il tasso di divertimento cala, a rimettere le cose in prospettiva ci pensa la più naive terza parte, che replica la struttura avventurosa, convenzionale, del capostipite, sostituendo riferimenti a Clint Eastwood a quelle su Levi Strauss e gli ZZ Top a Huey Lewis, e spostando l'attenzione del pubblico dal personaggio di Marty a quella del comprimario Doc.
Robert Zemeckis con questa popolarissima trilogia di film (che ha generato anche una -modesta- serie animata e vari videogame) ha detto, con largo anticipo, tutto quello che sappiamo oggi sull'industria hollywoodiana e sul cinema d'intrattenimento contemporaneo, costretto in una asfissiante ripetizione delle medesime idee, e un riciclo del già visto (profetico in "Back to the Future Part II" il cartellone pubblicitario del futuro su un fantomatico "Lo squalo 19"). Non è un caso che dopo questo terzetto di film il regista abbia scelto di dedicarsi ad altri progetti, più adulti e "ambiziosi", staccandosi definitivamente dal
deus ex machina Steven Spielberg e inseguendo un'"altra" idea di cinema.