Alessandro Barbero, il notissimo accademico di storia medievale, in un intervento pubblico di qualche anno fa, affronta una questione, se così vogliamo dire, controversa (discussa anche altrove): perché fascismo e comunismo non sono la stessa cosa. La tesi del professore, riducendola all’osso, è la seguente: fascismo e nazismo non hanno fatto altro che applicare, in Italia e in Germania, i loro programmi politici, grazie a cui (soprattutto il nazismo) hanno ottenuto il favore popolare; il fenomeno comunista va invece analizzato storicamente su due livelli differenti, da un lato, quello marxista-socialista, teoretico, della grande ambizione collettiva alla Gramsci, dall’altro la sua tragica “interpretazione” statale, per esempio durante le dittature in Unione Sovietica, Vietnam, Cina e non solo (il cosiddetto Socialismo reale). Non si tratta, dunque, di una distinzione etica, ma storica, appunto, quasi fenomenologica se vogliamo.
Ciò, se applicato alla storia italiana, assume, ça va sans dire, una rilevanza fondativa: l’Italia, com’è noto, dopo il ventennio fascista, da paese membro della neonata alleanza atlantica, ha visto crescere il più importante partito comunista d'Europa (non considerato, ovviamente, quello sovietico), che, allora come nel Primo dopoguerra (il cosiddetto Biennio Rosso), è sempre stato ostracizzato politicamente. È il punto di partenza di "Berlinguer – La grande ambizione", firmato da Andre Segre, che ha cristallizzato la biografia politica e personale del segretario del PCI, interpretato da un monumentale Elio Germano. La pellicola racconta dall’attentato alla sua vita a Sofia nel 1973, fino al rapimento di Aldo Moro nel 1978. Nel mezzo, il tentativo appunto di arrivare al governo del paese, e il Compromesso storico con la Democrazia Cristiana di Andreotti e Moro.
La tesi del professor Barbero ci aiuta, dunque, a comprendere l’eccezionalità del comunismo italiano - su cui concordano molti altri storici, come Alberto de Bernardi -, e, contemporaneamente, a iscrivere quell’esperienza politica nel complesso e drammatico contesto storico del Secondo dopoguerra. Si tratta, infatti, di una stagione in cui la politica che non fece i conti con i germi fascisti ancora presenti nell’apparato amministrativo del paese (leggasi, per esempio, l’"amnistia Togliatti") e che, al contempo, provava a diventare protagonista nello scenario atlantista, provocò una divisione, ancor oggi insanata, sia a livello culturale sia ideologico nella popolazione. Ciò, com’è noto, alimentò (tra le altre cose) le violenze degli anni di piombo, che culminarono con la nemesi della storia recente italiana, a cui anche il film di Segre arriva, l’uccisione del presidente della DC.
Segre ha dosato un approccio rigorosamente filologico – tutti i filmati di repertorio, i discorsi di Berlinguer nel corso degli anni - a uno più sociologico, evidente nelle parti che il film ricostruisce, nelle cosiddette stanze dei bottoni, oppure nella casa romana di Berlinguer, mentre parla a tavola con i quattro figli. La necessità di affidarsi a un’interpretazione, quella di Germano, era forse ineluttabile per il tipo di film, classicamente biografico, che il regista voleva fare. L’attore romano, quindi, si carica sulle spalle – lo vediamo nella scena simbolo del film (in copertina) - una narrazione precisa, quasi sempre incisiva. L’intenzione didattica, come è stato scritto, è altrettanto evidente, e funziona prettamente in senso storiografico, a favore della memoria collettiva. L’occhio sociologico, forse, avrebbe avuto bisogno di più spazio, per puntare su un maggior coinvolgimento, ma le idee politiche di Berlinguer trovano una riduzione efficace nel film, tanto quanto la sua caratterizzazione personale, tra gli esercizi quotidiani al mattino e il bicchiere di latte. L’impressionismo di certe immagini del segretario diventa il prodotto di una nostalgia latente, che Segre sottolinea con decisione.
In ogni caso, il regista voleva tracciare una visione d’insieme, che restituisse la frammentazione della società civile italiana, contrapposta al monolite della macchina statale. L’innesto della fiction sulla narrazione documentaria offre degli spunti interessanti, che rivisitano la storia italiana sia a livello pedagogico, sia a livello narratologico: la storia è ciò che è raccontato, scrive il grande storico Marco Bloch pensando alla storiografia romana e greca. Segre, allora, racconta dell’incontro con Andreotti (Paolo Pierobon), poco prima che il PCI votasse la “non-sfiducia” al governo, e di quello con Moro (Roberto Citran), poco prima che fosse rapito. È un dietro le quinte che si allontana dall’analisi immersiva e onirica di “Esterno notte. Parte I” e “Parte II”, e, semmai, segue - con meno intensità va detto - l’analisi psicologica, cioè di rappresentazione emotiva, del primo lavoro di Bellocchio sul caso Moro, ossia “Buongiorno, notte”, alla ricerca di quel sentimento che, come si dice per “I promessi sposi”, “ha fatto gli italiani”.
La grande ambizione di Berlinguer, alla fine, chiusa nella lettera che scrive alla moglie, “perdonami per tutto quello che non c’è stato”, più che l’utopia di cui tutti parlano, era un sogno pragmatico, programmatico, che è diventanto rimpianto verso il nostro paese, per tutto ciò che non c'è stato appunto; lo scriveva Cechov settant’anni prima in “Le tre sorelle”, una commedia che sembra una tragedia: “come sono ricchi i sogni degli operai”. L’opera di Segre non è così ricca, ma funziona.
cast:
Elio Germano, Giorgio Tirabassi, Paolo Pierobon, Roberto Citran, Elena Radonicich, Fabrizia Sacchi, Andrea Pennacchi
regia:
Andrea Segre
distribuzione:
Lucky Red
durata:
122'
produzione:
Vivo film, Jolefilm, Rai Cinema, Tarantula, Agitprop
sceneggiatura:
Marco Pettenello, Andrea Segre
fotografia:
Benoit Dervaux
scenografie:
Alessandro Vannucci
montaggio:
Jacopo Quadri
costumi:
Silvia Segoloni
musiche:
Iosonouncane