Il dramma delle “Magdalene Laundries” (o “Case della madre e del bambino”) è una delle pagine più buie della storia d’Irlanda (e d’Europa): fino a poco meno di trent’anni fa (al 1996-98), si stima che oltre trentamila ragazze irlandesi furono schiavizzate con "il placet" del governo statale e le sovvenzioni della chiesa cattolica. L’obiettivo (si fa per dire) era rieducare le cosiddette “fallen woman”, quelle donne che avevano perso la loro innocenza, attraverso violenze psicologiche, umiliazioni, abusi e sfruttamento di ogni tipo. Molte famiglie irlandesi chiedevano loro stesse che le figlie fossero rinchiuse. È ciò che accade, per esempio, a Margaret, una delle protagoniste di “Magdalene” - il film Leone d’oro nel 2002 di Peter Mullan -, colpevole di essere rimasta incinta fuori dal matrimonio perché stuprata dal cugino.
“Small Things Like These”, tratto dall’omonimo romanzo di Claire Keegan, è il controcampo iper-intimista di “Magdalene”. La pellicola racconta di Bill Furlog (Cillian Murphy), un carbonaio di New Ross che lavora, tra le altre cose, per una “Magdalene Laundries” della zona, caricando e scaricando ogni giorno enormi sacchi di torba, antracite, carbonella e legna. Un pomeriggio assiste a un litigio: una madre sta costringendo la figlia a entrare nel convento, mentre quest’ultima prega il padre di fermarla. È l’innesco narrativo di un lungo moto analettico: la madre dello stesso Furlog, abbandonata dal marito, è scampata alle violenze delle “Magdalene Laundries” solo grazie all’aiuto di Mrs Wilson, per la quale lavorava come domestica – una “delle poche donne che all’epoca poteva permettersi di fare ciò che voleva” dice in una scena Eileen (Eileen Walsh), la moglie con cui Bill ha cinque figlie.
L’azione emotiva della pellicola è chiusa in una fotografia cupa, tra offuscamenti, non-fuoco e primissimi piani che inglobano e raccordano la luce domestica (immagine sotto). Oltre l’abitazione di Bill, oltre il convento, a fare da protagonista, è la neve, la nemesi di ogni scrittore e scrittrice irlandese. Se in "Eveline" la neve identificava la paralasi interiore, nel romanzo di Keegan, al contrario della protagonista del racconto di Joyce, Bill reagisce alla stasi. L’elemento epifanico è diffuso gradualmente nel percorso narrativo, l’alternanza dei flashback trasforma, in questo senso, l’analessi in prolessi: Bill trova nel passato ciò che lo spingerà ad agire nel presente.
Il regista Tim Mielants, al suo terzo lungometraggio, asseconda la narratologia di Keegan, fatta di lunghi dialoghi e inneschi improvvisi. I modelli della scrittrice – anzitutto Cechov e Carver -, riflettono molte scelte cinematografiche: da un lato, i lunghi movimenti di camera che scandagliano il profilmico fino a stringere l’inquadratura su un particolare, di un oggetto o di un soggetto, cioè di un volto - quelle “piccole cose” del titolo che rimandano a Carver; dall’altro, le sequenze in cui Bill guarda dall’interno della carbonaia la ragazza costretta dalla madre a entrare nel convento, o, ancora, il momento in cui Bill stesso entra nella struttura per farsi pagare e una ragazza di nascosto lo prega di portarla via da lì, formano un puzzle tensivo che imploderà lungo tutto il corso della vicenda, a crescere, fino all’epilogo. Insomma, quella geometria diegetica - "esplosione esteriore" che provoca "tormento interiore" - tanto presente nei racconti di Cechov. Non solo: nella storia di Keegan troviamo anche quel senso di giustizia morale dei più bei racconti di Gogol: da qui, arriva la frase di Eileen – “per andare avanti nella vita, a volte bisogna ignorare qualcosa”, e la scelta di Bill di disobbedire. Nel romanzo dice: “era possibile dirsi cristiani senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com’erano?”.
La messa in scena polifonica del regista belga restituisce in gran parte il sottosuolo emotivamente conflittuale del romanzo, i suoi infiniti punti di vista. Dalla finta soggettiva che ci mostra la nuca di Bill mentre guida il camion, alle dissolvenze incrociate, ai controcampi rallentanti tra Bill e suor Mary (la direttrice del convento), o, ancora, la scelta di cristalizzare le ombre sul volto di Murphy mentre, fuori campo, le voci della madre superiore e di Sarah (una ragazza chiusa nel convento) aumentano l'intesità del tono musicale, apparentemente diegetico. Fino, poi, alla camera a plongeé che fotografa le mani di Bill mentre quest’ultimo le lava dal carbone, dal passato, a cui però non riesce a sfuggire.
L’intensità del romanzo è infine riassunta nella catarsi dell’epilogo: nell’inquadratura dell’insert, ancora una volta, che fa da sineddoche tra l’uomo e la sua parte, tra le grandi cose e quelle piccole che “fanno un'esistenza”. Bill (forse, ma non l’Irlanda) fa pace con sé stesso. Allora, afferra la mano di Sarah, la ragazza che alla fine ha scelto di "liberare", e la guida verso la sala da pranzo, verso la propria famiglia, con una camminata nell'oscurità che per certi versi rallenta la corsa a perdi fiato di Caít, nell’epilogo di “The Quiet Girl”, la trasposizione di “Foster”, l’altra potente short story di Keegan.
cast:
Cillian Murphy, Eileen Walsh, Michelle Fairley, Emily Watson
regia:
Tim Mielants
titolo originale:
Small Things Like These
distribuzione:
Teodora Film
durata:
98'
produzione:
Artists Equity, Big Things Films
sceneggiatura:
Enda Walsh
fotografia:
Frank van den Eeden
scenografie:
Paki Smith
montaggio:
Alain Dessauvage
costumi:
Alison McCosh
musiche:
Senjan Jansen