"Di noi belle donne (perché sono stata una di queste) nessuno ha più spirito quando ne abbiamo un poco. Gli uomini non sanno più il valore di quello che diciamo: mentre ci parliamo, loro ci guardano, e ciò che diciamo profitta di ciò che essi vedono"
(P. de Marivaux, La vita di Marianna, Rizzoli, 1951. trad. di R. Arienta)
L’incipit spesso racchiude molto, se non tutto, di un’operazione. In "È stata la mano di Dio" un virtuosismo registico apre un film in cui questi ultimi sono quasi del tutto assenti, segnando il passaggio del suo autore a un’opera lontana dai suoi stilemi. "Parthenope" inizia con due immagini chiave: una carrozza, elemento del folklore napoletano, e il primo piano di un bambino che estasiato guarda nascere nel mare la protagonista (Celeste Dalla Porta).
Il 10° lungometraggio del regista è il primo ad avere come personaggio principale uno femminile, dal carattere sfuggente, a partire dal processo di identificazione con Sorrentino stesso e la città di cui porta il nome, che prima dice di amare e poi di odiare. "In quanto uomo, penso che non sia mio compito raccontare una donna: è un’ambizione a cui ho rinunciato subito. Però ho provato a mettere in relazione dialettica il mio lato femminile con quello della mia protagonista", ha spiegato il cineasta in un’intervista alla rivista "Linus"[1]. Molti tratti la accomunano ai protagonisti maschili del suo cinema (avere sempre la risposta pronta, il suo parlare per aforismi), così come altri al suo stesso autore (la fuga da Napoli). Sono solo però spunti, come le tante parole che lei spende su se stessa e gli altri spendono sul suo conto, che non bastano a farne un ritratto esaustivo.
Allo stesso tempo, Parthenope sembra in parte incarnare quel ricordo di donna di un tempo passato che affigge molti personaggi sorrentiniani (in particolare il Jep Gambardella di La grande bellezza"), quando poi alla fine del film la dinamica viene ribaltata: è lei da anziana a ricordare gli amori di gioventù. Questa sensazione culmina nel finale, in cui alla domanda che tutti le hanno sempre fatto dà risposta contradditoria, che si prende gioco di chi per tutta la sua vita (e per tutto il film) ha cercato di catturarla. Come in altre occasioni ("Le conseguenze dell’amore", "Youth"), Sorrentino si sofferma sull’inquadratura del suo corpo visto di spalle, che mai come ora diventa espressione del suo approccio. Il ritratto di Parthenope nasce dalla prospettiva maschile del regista e dei personaggi, che le si avvicinano ma restano sempre esclusi dalla sua interiorità più profonda. Parthenope, fin dalla sua nascita, è guardata dagli uomini: la macchina da presa si sofferma sui loro primi piani pantografati, sui particolari del suo corpo nudo sezionato, con ralenti di lei mentre cammina per le strade. Un tratto tipico dello stile del regista che da valenza estetica ne assume una narrativa. Sorrentino giunge così nei territori dell’Abdellatif Kechiche di "Metkoub, My Love": la donna che sa di essere guardata e risponde a tono, gli sguardi in macchina come rimando allo spettatore, i maschi fermi al palo a contemplare. Nel percorso di Parthenope è fondamentale poi l’incontro con lo scrittore americano interpretato da Gary Oldman, che gli dice: "La bellezza apre tutte le porte”. Mentre lui dorme, la giovane si guarda allo specchio imparando a guardarsi e a rimandare con fermezza lo sguardo altrui, a sfidare chi, con gli occhi, prova a sottometterla (il cardinale, Peppe Lanzetta) e a entrare in contatto con chi invece scoprirà simile a lei, il professor Marotta (Silvio Orlando). Da Kechiche a Jacques Audiard, in una parabola dove però l’unione duratura di due caratteri apparentemente opposti non è possibile: il destino di Parthenope, come di tutti gli altri personaggi del film (e dell’intero cinema di Sorrentino) è la solitudine (segnata anche dalla morte di un famigliare, per lei il fratello come per il "New Pope").
Il nuovo film di Sorrentino sottolinea questo aspetto proponendo più volte campi lunghi in cui è presente una sola figura umana, immersa nel paesaggio circostante, o inquadrature in cui quest’ultima è stretta, godardianamente, dentro le cornici delle porte. Sono sole poi le diverse celebrità che la protagonista incontra durante il film: lo scrittore e il cardinale, accomunati da un ruolo che più li avvicina alla folla più li isola (e dalla tendenza all’alcolismo). Le due attrici (Isabella Ferrari e Luisa Ranieri), che nei tentativi vani di preservare la propria bellezza e nell’egocentrismo si allontanano da tutti. Personaggi diversi per sottolineare idee simili: se dieci anni fa dicevamo che Sorrentino non sapeva fare a meno dei suoi dolly, ora sembra non poter fare a meno del suo bozzettismo, degli inevitabili fellinismi, seppur qui più nascosti (la relazione tra la protagonista e lo scrittore che pare un ribaltamento di quella tra Giulietta Masina e Amedeo Nazzari in "Le notti di Cabiria").
E soprattutto dei suoi dialoghi per aforismi, forse mai così presenti come in "Parthenope". I suoi personaggi non sembrano trovare altro modo per esprimersi, alcuni concetti si ripetono dai film precedenti (la relazione tra ironia e morte che esprime qui il cardinale e prima di lui "Il divo"), a volte qualcuno spiega a parole quello che una scena precedente aveva mostrato e alcune sottolineature verbali appaiono didascaliche. A un certo punto, gli stessi personaggi affrontando la questione: un ragazzo dice a Parthenope che parla solo per frasi ad effetto, a cui preferirebbe quelle vere. Il film dunque diventa un metacommento di Sorrentino sul suo stesso cinema, per evidenziare come più i personaggi parlano per dichiarazioni altisonanti per descrivere se stessi o chi li circonda, più non fanno che esprimere la loro solitudine, un cortocircuito, una voragine esistenziale.
Un modo per il regista di rivolgersi al suo pubblico e di parlare del suo cinema, che si attua anche attraverso la città al centro del film. "Parthenope" è, nella vicinanza autobiografica a quanto rappresentato, l’"Amarcord" di Sorrentino, dove portare a compimento il processo di ricerca del bello e di un realismo che spesso giaceva sotto le etichette di grottesco e assurdo che da sempre accompagnano le sue opere e che ora può finalmente manifestarsi. Già ne "La grande bellezza", dietro le macchiette caricaturali, il regista provava a cogliere l’umanità, le anime fragile dei personaggi. Nella seconda parte di "Parthenope", la protagonista viene condotta nelle strade nascoste della città, e, mentre una dinamica che parrebbe criminale sfocia in tutt’altro, pone lo sguardo su anfratti di piccole abitazioni, in cui scene di povertà e degrado vengono elevante a momenti intimi di poesia quotidiana. Poi si reca in un antro dove avviene "la grande fusione", l’accoppiamento di una giovane coppia sotto gli occhi di diversi presenti. Sembra di stare alla corte di "Marie Antoinette" o ancor di più a teatro, dove fondamentale è lo sguardo di chi assiste e dove è la ragazza a prendere il membro del maschio inerte e a lanciarsi nell’atto, scambiando uno sguardo d’intensa con Parthenope. Sorrentino, come la sua protagonista, instaura un dialogo diretto con lo spettatore, invitandolo ad accogliere pratiche per lui incomprensibili e forse aberranti, fino a spingerlo a guardare con amore (letteralmente) il mostro. Mostro, dal latino "monstrum", "prodigio", concetto che richiama la tesi di antropologia della protagonista e il viaggio che compie il film stesso nei riti della tradizione partenopea, che comprendono anche l’elemento religioso, quel miracolo di San Gennaro che lo stesso cardinale definisce uno "show" e che va in scena davanti a un grande pubblico. Ma i riti possono essere anche laici, come a Napoli quello del calcio, che del resto per molti italiani è una religione (non a caso si dice "fede calcistica") e che oggi, prima che uno sport, è un business e uno show. Sorrentino ricerca l’elemento viscerale e primigenio della passione per la propria squadra del cuore. La protagonista anziana ritorna nella città natale in un momento storico: i festeggiamenti per il terzo scudetto nel maggio 2023: la città è vibrante, il carro dei tifosi sfila per le strade, chiudendo il cerchio di un film iniziato con l’immagine di una carrozza.
[1] “Parthenope, la meravigliosa donna che mi sarebbe piaciuto essere”, di G. Soranna in “Linus”, Anno LX N° 10, p. 46.
cast:
Celeste Dalla Porta, Isabella Ferrari, Luisa Ranieri, Silvio Orlando, Stefania Sandrelli, Gary Oldman
regia:
Paolo Sorrentino
distribuzione:
Piper Film
durata:
136'
produzione:
Fremantle, The Apartment Pictures, Yves Saint-Laurent, Numero 10 Production, Pathé Films, PiperFilm
sceneggiatura:
Paolo Sorrentino
fotografia:
Daria D'Antonio
montaggio:
Cristiano Travaglioli
costumi:
Carlo Poggioli
musiche:
Lele Marchitelli