Un romanzo su un'ossessione cinefilo-amorosa, che ha per oggetto una delle nuove muse di Hollywood, Kirsten Dunst
Autore: Alessandro Iovinelli
Titolo: L'uomo che amava Kirsten Dunst
Editore: Narrativa Aracne
Pagine: 180
Prezzo: euro 11
Anno: 2011
"Rita mi ha detto che c'è un'altra donna. È vero?"
"Hai presente Kirsten Dunst?" [...]
"Stai cercando di farmi capire che lei ti ricorda Kirsten Dunst?"
"Lei non mi ricorda Kirsten Dunst. Lei è Kirsten Dunst"
Kirsten Dunst è una di quelle attrici che si potrebbero definire "generazionali" o, con una parolaccia molto in voga, "iconiche". Insieme a Kate Winslet e Naomi Watts, compone forse il terzetto di interpreti che hanno maggiormente incarnato lo spirito del nuovo secolo. Perché anche se per molti resterà "la fidanzata di Spiderman", la bionda ragazza del New Jersey ha già al suo attivo un curriculum d'impressionante versatilità, che spazia da una delle vergini suicide a una Maria Antonietta disperatamente glamorous, dalla lolita vendicativa di "Se mi lasci ti cancello" alla struggente e "apocalittica" Justine di "Melancholia".
Nessuna meglio di lei, dunque, poteva prestarsi al transfer cinefilo-amoroso che fornisce lo spunto narrativo al nuovo romanzo di Alessandro Iovinelli, scrittore romano vissuto anche a Zagabria e Parigi, in veste di lettore d'italiano, docente universitario e addetto all'Istituto Italiano di Cultura. "L'uomo che amava Kirsten Dunst" è un titolo che è insieme una citazione di François Truffaut ("L'uomo che amava le donne") e un omaggio alla nuova musa di Hollywood, il cui spirito aleggia sull'intero romanzo. Quella per il cinema, del resto, è una passione non nuova per Iovinelli, che già nel precedente "Calluna Vulgaris" (Mobydick, 2008), griffato da un primo piano di Greta Garbo in copertina, aveva scelto per protagonista un critico cinematografico, e che nella sua ultima raccolta di saggi, "Il salto oltraggioso del grillo" (Albatros, 2010), aveva usato il sottotitolo "Saggi di narrativa e di cinema".
Analogamente al Tom Baxter/Jeff Daniels che nell'alleniano "La rosa purpurea del Cairo" usciva dallo schermo per scappare con l'amata, infrangendo così la finzione filmica, Kirsten Dunst, come un angelo, attraversa il confine che separa la finzione dalla realtà insediandosi nella mente del protagonista, fino a non abbandonarlo più. Nasce così la "patologia amorosa" di Adriano, scrittore e cinefilo, che sogna di vivere come in un film, per esorcizzare gli spettri di una realtà che gli sta sfuggendo di mano. Tutto il romanzo è giocato sulla osmosi tra fantasia cinematografica e realtà, in una costruzione narrativa efficace, impreziosita da dialoghi teatrali di sagace acutezza. Un'ironia parossistica che tuttavia, come spesso accade, è l'anticamera della riflessione e, talvolta, della commozione.
Non è solo il mito dell'eterno femminino a inchiodare l'esistenza del protagonista attorno alle conturbanti sembianze dell'attrice americana di origine tedesca. È la consapevolezza stessa della necessità della finzione cinematografica come antidoto al disfacimento della realtà, l'obbligo di una rincorsa al desiderio che titanicamente trascende ogni ragionevolezza, lambendo la follia. Così, in pieno delirio allucinatorio, Adriano arriva alla consapevolezza di conoscere ormai ogni risvolto della personalità di "Kiki", dai suoi traumi nascosti (droghe? Alcol?) alla sua ingenuità senza difese, dal suo spirito ribelle ai finti sorrisi che (mal)celano una crescente repulsione per il jet-set di Hollywood. Perché "una persona la conosce solo colui che la ama senza speranza".
Raccontata in forma di contrasto drammatico, ma svelando alla fine più di un'affinità elettiva, tra il protagonista e il suo migliore amico, la storia di questa ossessione assume poi realmente movenze cinematografiche, nei tempi, nel rincorrersi serrato dei dialoghi, nel gioco di primi piani, campi lunghi e controcampi. E come in un crescendo, si eleva in forma quasi trascendente e taumaturgica, proprio quando la vita reale del protagonista precipita nella malattia e nel dolore.
Quando tutto è perduto, non resta che il sogno, sembra suggerire Iovinelli. E nessun sogno riesce a essere più realistico della finzione cinematografica. E nessun sogno - verrebbe da aggiungere - riesce a essere più dolorosamente appagante di un amore impossibile.