Il bel libro di Roberto Lasagna, "Nanni Moretti. Il cinema come cura", ripercorre la vita e la filmografia del regista coniugando l'analisi dei testi audiovisivi all'indagine sulle differenti forme comunicative, definite con il termine cura, intrattenute dall'autore romano con il proprio pubblico, oltre che, più in generale, con l'intera società italiana.
Mio padre è nato nel 1954, un anno dopo Nanni Moretti. Quando ricorda la sua giovinezza, ama spesso descrivere e citare delle scene di "Ecce bombo" o "Io sono un autarchico" per raccontare la sua generazione. Spesso mi ha consigliato di guardare quei film, per capire quanto (e cito a memoria le sue parole), "eravamo incasinati, scazzati ma anche partecipi e impegnati… molto più della tua generazione". Tutto sommato gli ho sempre dato ragione: Moretti si è da subito posto come un importantissimo punto di riferimento, anche e non solo per la sua generazione, ma perché in grado di intercettare e rappresentare specifiche dinamiche sociali e politiche. Questa caratteristica lo ha accompagnato nel tempo, tanto da ispirare uno dei temi più importanti trattati nello splendido libro di Roberto Lasagna, "Nanni Moretti. Il cinema come cura".
Il saggio affronta l’autore tramite una chiave di lettura innovativa, frutto della congiunzione tra un approccio tradizionale e un’analisi relativa alla relazione spettatoriale. Su una base classica, incentrata sulle analisi dei singoli film in senso cronologico, quindi focalizzandosi sul percorso biografico, la vita del regista, e tematico, i motivi ricorrenti nei suoi lungometraggi e le idiosincrasie dell’autore, Roberto Lasagna innesta un’analisi che si concentra sul rapporto tra Moretti e il pubblico, dunque sulla relazione (e comunicazione) tra autore e spettatore che viene descritta come cura.
Quest’ultimo termine e concetto, che si segnala per la sua importanza fin dal titolo del libro, viene declinato e studiato in vari modi. Oltre al rispecchiamento generazionale, che costituisce l’aspetto della cura verso il singolo spettatore, nel corso della sua lunga carriera Moretti ha dato luogo a forti polemiche e proposte relative tanto al cinema quanto alla società in cui di volta in volta si è trovato a vivere. In questi casi, destinati entrambi, a ben vedere, al pubblico cinematografico tout court, la cura si è quindi manifestata sotto forma di prese di posizione decise e forti, dalla diatriba televisiva del 1977 che ha visto Moretti polemizzare con Mario Monicelli riguardo la commedia all’italiana, fino alla più recente critica via social alla Palma d’Oro assegnata a "Titane", passando per la bellissima scena di "Caro diario" in cui "tortura" un critico cinematografico, portandolo alle lacrime tramite la lettura delle sue recensioni, reo di aver scritto positivamente di "Henry pioggia di sangue", film detestato dall’autore romano. La cura proposta da Moretti può anche prendere la forma del racconto di crisi esistenziali che, come ci fa notare Lasagna, abbondano nella sua filmografia, colma di personaggi spesso ritratti nel momento in cui non riescono più a svolgere la propria funzione di guida per gli altri: ne sono esempi, fra i tanti, il Pontefice di "Habemus Papam", oppure lo psicoterapeuta in "La stanza del figlio".
La polemica e la proposta, ovvero la capacità di Moretti di individuare le criticità del sistema cinematografico e/o sociale in cui si trova al fine di condurlo ad una soluzione (la cura), avviene anche in relazione all’intera società italiana, ad esempio in "La cosa" e in "Aprile", film dal taglio documentaristico in cui il regista si confronta apertamente con la situazione politica del Belpaese. La cura di cui parla Lasagna è, quindi, riassumibile in tre destinatari: lo spettatore, tramite il rispecchiamento generazionale; il cinema, mediante la polemica e la proposta; la società e il pubblico in generale, anche in questo caso tramite il confronto acceso e la delineazione di una soluzione. Quello di Moretti è dunque un rapporto comunicativo verace: acceso ma sincero, capace di scuotere ma anche di, come sottolinea l’autore del saggio, procedere sempre a testa alta.
Un elemento di fondamentale importanza in questo rapporto è senza dubbio il protagonista, dato che si pone come uno dei vettori principali della cura: Lasagna si sofferma molto sull’analisi dei personaggi del regista, identificando in particolare tre segmenti nella sua filmografia. Dopo una prima parte in cui Moretti veste la maschera di Michele Apicella, ne segue una seconda in cui il regista sceglie il racconto autobiografico senza filtri, terminando infine con i lungometraggi più recenti, in cui l’autore passa definitivamente dietro la macchina da presa e utilizza attori protagonisti, mantenendo per se stesso piccoli ruoli non preponderanti.
Scheda
Titolo: Nanni Moretti. Il cinema come cura
Autore: Roberto Lasagna
Editore: Mimesis
Anno edizione: 2021
Pagine: 156
Tipo: Brossura
Perché ha deciso di scrivere un libro sul cinema di Nanni Moretti?
Pensavo già da tanto tempo a questo libro perché mi sono reso conto che non ho mai scritto molto sul cinema italiano. Questa circostanza non è stata frutto di una scelta ma si è verificata in modo casuale. Quest’anno, invece, ho pubblicato due libri sul nostro cinema nazionale, nonostante che Dario Argento e Nanni Moretti possano essere considerati registi di caratura internazionale. Penso che sia nato in me il desiderio di sopperire a questa "mancanza di attenzioni" nei miei libri passati cercando due autori che abbiano svolto un ruolo di grande rilevanza per il cinema italiano e non solo, in particolare Moretti: un regista di fondamentale importanza per le trasformazioni del costume degli ultimi quarant’anni, oltre che dotato di grande attenzione riguardo a tanti aspetti della realtà contemporanea.
Ho affrontato la sua filmografia identificando una figura di cineasta molto sensibile al rapporto fra l’individuo e il contesto di appartenenza di quest’ultimo, dunque alla politica e alla società. Quindi non ho preso in considerazione solo il personaggio che ci ha presentato nei suoi primi lungometraggi, Michele Apicella, ma ho trattato Moretti come una figura sfaccettata, a tutto campo, che a un certo punto si toglie la maschera e che entra in campo, a cui ho affibbiato il termine di "cinema come cura". Questa espressione non vuole avere una valenza semplificatrice ma è tangenziale a un percorso: la possibilità che attraverso un cineasta ci si possa fare delle domande.
Moretti è infatti interessante anche perché nei suoi film viene messo in mostra un personaggio sempre in crisi e questo è un elemento destinato a scatenare una discussione, oltre che a mettere in luce la fragilità dei vari personaggi. Ciò accade sin dal primo lungometraggio, in cui compare Michele Apicella che, pur mostrandosi presuntuoso, arrogante e indisponente, è una figura anche fragile e si pone come l’espressione di una crisi. Nel tempo è nata in me l’urgenza di ritrovare quel personaggio un po’ lontano nel tempo e di vedere quali fossero le sue trasformazioni, arrivando sino al suo cinema odierno, dove il regista è dietro la macchina da presa, in cui l’ironia è messa da parte e affronta temi più dolorosi. Moretti ha sempre detto che il suo cinema è parte di un romanzo autobiografico e questa caratteristica traspare moltissimo lungo la sua filmografia, per cui, al di là del giudizio sui singoli film, che d’altra parte traspare nella lettura dei vari capitoli del mio libro, ho cercato i motivi di questa vicenda autobiografica a cui assistiamo attraverso i suoi lungometraggi.
Dunque, con umiltà e divertimento, mi sono messo alla ricerca dei temi sotterranei che attraversano la sua opera, ad esempio quello della crisi, da cui deriva l’attitudine un po’ psicologica di questo libro che, tuttavia, non vuole dare etichette. Ovviamente, gli spettatori non si curano guardando i film di Moretti, ma questa attitudine fa parte di un percorso che finora non era stato particolarmente evidenziato. Si parla infatti del suo cinema come riflesso e specchio della società, oppure come critica a quest’ultima, tuttavia c’è anche tanta psicologia, tanta crisi esistenziale in questi personaggi che urlano, che hanno un rapporto particolare con la madre, che dovrebbero porsi come guide per gli altri (pensiamo, fra i tanti, al Pontefice di "Habemus Papam", al prete di "Palombella rossa" o allo psicologo di "La stanza del figlio") ma che per vari motivi non riescono più ad assolvere il loro ruolo.
La cura proposta da Moretti si declina in vari modi: verso il cinema (con cui polemizza e a cui propone nuove strade), verso lo spettatore (tramite il rispecchiamento generazionale) e, infine, verso la società e il pubblico (anche in questo caso polemizzando e proponendo). Esistono altre vie attraverso cui Moretti esplica questa cura?
Il significato più manifesto della sua filmografia è un cinema che alza la testa: la cura è quindi l’identificazione con Nanni Moretti che, in quanto autore, scende in campo per fare dei film che polemizzano orgogliosamente e sdegnosamente. Ad esempio, in "Io sono un autarchico" vediamo Michele Apicella a cui esce della bava verde dalla bocca perché gli viene detto che Lina Wertmüller ha ricevuto una cattedra di cinema all’università di Berkeley. Ho parlato di cura perché Nanni Moretti pone se stesso come un antidoto verso un certo tipo di film, battendosi in prima persona in varie forme e occasioni a favore di un cinema delle idee, contrariamente a quello di molti dei suoi contemporanei che, dunque, vengono identificati come gli antagonisti da combattere.
La discesa in campo avviene in molti modi e non si limita alle prese di posizione contenute nei lungometraggi, ma si esplica anche attraverso la fondazione di una casa di produzione e la gestione di una sala cinematografica. Inoltre, Moretti appoggia altri autori, ad esempio lanciando giovani cineasti come Daniele Lucchetti e Carlo Mazzacurati, oppure recitando come attore in film di altri. Questi ultimi casi sono particolarmente interessanti perché Nanni eredita dalla collaborazione con altri registi alcuni motivi che ritroviamo nei lungometraggi che dirige: in questo senso, ad esempio, "Caos calmo" è un altro film della crisi.
Si tratta dunque di un movimento sempre più interno e allargato, presente anche nei documentari: ad esempio "La cosa", riguardante il partito della sinistra, è un altro punto di vista sulla crisi politica. C’è poi "Santiago, Italia" che ragiona sulla crisi politica intesa come dialogo fra paesi, oltre a riferirsi esplicitamente a un Italia diversa, quella del 1973 disposta ad accogliere coloro che erano costretti a fuggire a causa del golpe di Pinochet.
La cura è insita anche nell’affrontare tutte queste situazioni con la testa alta, come ha fatto Nanni Moretti vivendo vari momenti: dalla fase dell’alter ego a quella che ho chiamato "cine-diaristica", in cui l’autore si toglie la maschera di Michele Apicella per raccogliere gli echi pasoliniani di un personaggio, anche gramsciano, che ragiona sulla figura dell’intellettuale. "Caro diario" è, infatti, anche un omaggio a Pasolini e alla mancanza della figura di riferimento dell’intellettuale.
Trovo che uno degli aspetti più interessanti e originali del libro consista nel tipo di analisi autoriale: su una base classica, che si focalizza su un taglio biografico (la vita di Moretti) e tematico (i motivi ricorrenti nei suoi film), viene inserita una chiave di lettura incentrata sul rapporto con il pubblico, dunque sulla relazione tra autore e spettatore che viene descritta come cura.
Si: il libro ha anche un’impostazione classica, avendo un taglio cronologico, con una parte introduttiva più legata alla figura di Moretti in quanto uomo di cinema e una seconda parte che entra nel merito di ciascun film prendendosi anche dei detour, dei deragliamenti per poi tornare sul binario principale.
Parlando del rapporto con il pubblico, mi ha un po’ sorpreso la ricezione problematica in Italia del suo nuovo film, "Tre piani": non penso che meritasse questa accoglienza. In seguito, rispolverando la memoria, ho notato che questo era già successo: quello di Moretti è sempre stato un rapporto complicato con il pubblico che poi, a ben vedere, gli è fedele. D’altra parte, non è da tutti sollevare tanta problematicità e tante recensioni spiazzanti in seguito all’uscita del nuovo film di un regista ormai affermato a livello mondiale.
La cura, a ben vedere, risiede anche in un certo tipo di rapporto, di relazione con lo spettatore, a cui non si vuole proporre quello che si aspetta esattamente, ma qualcosa di diverso e di spiazzante: Nanni Moretti ha fatto questo sovente.
Il libro si sofferma molto sull’analisi dei personaggi della filmografia di Moretti: dall’alter ego Michele Apicella, passando per la fase cine-diaristica caratterizzata da un racconto autobiografico senza filtri, fino all’utilizzo di attori protagonisti. I personaggi sono quindi uno dei vettori fondamentali per il racconto della crisi e della relativa cura?
Nei film di Moretti ci sono dei cambiamenti frequenti, delle fasi che durano oltre il singolo lungometraggio: Michele Apicella è presente in ben cinque film, poi c’è il periodo diaristico, in cui l’autore si toglie la maschera del personaggio, infine c’è una fase in cui si pone dietro la macchina da presa, pur ritagliandosi delle parti non centrali ma nemmeno residuali. Ad esempio, in "Habemus Papam" svolge il ruolo dello psicanalista del Pontefice, in "Mia madre" è il fratello della protagonista e in "Tre piani" incarna la figura di un giudice rigido. Dunque, Moretti parte da una prima presenza scenica molto forte in cui accoglie in sé tutte le istanze psichiche: Apicella è soprattutto il figlio di una generazione, ben tratteggiata in "Ecce bombo", con la quale vive un rapporto di partecipazione ma anche di tensione e conflitto. Successivamente il regista prende consapevolezza di un ruolo diverso: quello di autore che percorre e manifesta la crisi in vari modi, ad esempio tramite l’ironia. In "Aprile" incarna la figura dell’intellettuale che in realtà irride il suo schieramento politico, esprimendo l’intento, proprio di uomo di cinema e di sinistra, di realizzare un documentario sull’Italia del boom economico, ma al contempo desiderando di realizzare un musical incentrato su un pasticcere trotzkista. Manifestando questa doppia anima, Moretti suggerisce che non è possibile interpretare le persone semplicemente come il militante irreprensibile o come il regista disimpegnato che vuole fare musical: negli individui c’è una complessità da cui possiamo aspettarci un po’ di tutto. L’ironia è quindi un aspetto molto importante del regista, che gli consente di toccare nel tempo temi via via sempre più esistenziali nel tempo: la maschera, portatrice tanto di ironia quanto di drammaticità, viene indossata dall’autore tanto nei film iniziali quanto in quelli della maturità, ad esempio in "La stanza del figlio", in cui il personaggio del padre e psicoanalista prende il nome di Giovanni, invece che di Nanni, come avviene in "Caro Diario" o in "Aprile".
Sicuramente il suo cinema percorre un viaggio che tocca anche il sociale: basti pensare al fatto che i suoi film sono molto ben cadenzati nel tempo, dato che ne esce uno ogni quattro o cinque anni. Questi lungometraggi si fanno portatori anche di istanze politiche e sociali, ma anche del disagio del protagonista che qualche volta suggerisce anche delle piccole strategie per trovare la serenità. Ad esempio, il consiglio relativo al bicchiere d’acqua espresso nel finale di "Cario diario", oppure, nello stesso film, il fatto di fuggire dall’isola che sembrava inizialmente un luogo di meditazione e di ritrovamento dell’anima e che, in seguito, si scopre essere un posto identico ad ogni altro nel mondo, invaso dalla televisione e da "Beautiful".
Mi sembra che, nel corso del tempo, Moretti sfumi dai toni polemici e faccia a faccia di Michele Apicella fino a una dimensione più meditativa: ad esempio, in "Caro Diario" vediamo spesso il personaggio inquadrato in campo lungo e attorniato dal paesaggio, oltre ad ascoltare le musiche di Nicola Piovani che conferiscono a queste scene un senso di nostalgica drammaticità. Negli ultimi anni, infine, il regista approda a delle note un po’ imbarazzate e dubitative proprie di film che all’uscita hanno spiazzato il pubblico, nonostante successivamente siano stati rivalutati e amati. Se c’è una costante di Moretti che tiene nel tempo è il fatto che quasi tutti i suoi film hanno spiazzato il pubblico.
Quali sono i film che ha amato di più e perché?
Devo dire che ho avuto sempre un rapporto un po’ altalenante con i suoi film. Ad esempio, quando "Palombella rossa" uscì al cinema mi lasciò un po’ disorientato, ma poi lo rividi e mi piacque molto; invece "La stanza del figlio" mi colpì subito tantissimo. Metterei "Bianca", "La messa è finita" e "Palombella rossa" tra i suoi film che preferisco, anzi tra gli imprescindibili, perché discutono tutti riguardo al tema della crisi e perché in questi è presente un Moretti attore veramente in forma. Lui è infatti anche un grande comico la cui maschera mantiene anche sottotesti drammatici. Infine, trovo il "Il caimano" molto interessante perché contraddice il discorso che era stato fatto in "Caro diario". Il lungometraggio del 2006, infatti, parla di un produttore di film di genere e di serie B che però decide, in modo in realtà avventato, senza sapere bene cosa stia facendo, di realizzare un film riguardante Berlusconi. Se in "Caro Diario", dunque, Moretti accusava i critici di legittimare quel tipo di cinema che a lui non piaceva, in "Il caimano", invece, lo elogia finendo con il suggerire che sia importante non ignorare le pellicole di genere perché potrebbero avere la temerarietà di parlare di cose che altri invece non hanno il coraggio di dire.