Incontriamo Nadine Labaki, la regista di "Caramel", che presenta il nuovo film "E ora dove andiamo?", un affresco di resistenza sullo sfondo di un Libano lacerato dalla guerra
ROMA - Più che una processione un corteo danzante. Più che un corteo, un'onda femminile di nero vestita che avanza a passo di danza, all'unisono come un corpo di ballo ma poi si taglia a metà: da un lato il cimitero musulmano, dall'altro il cimitero cristiano. Avanza nello spazio polveroso e vuoto di una pianura che sembra senza confini. Avanza verso un cimitero. Avanza: è la forza delle donne. Che possono essere fortissime se si uniscono contro le follie degli uomini, della guerra e dei pregiudizi. Questo "
E ora dove andiamo?" è fatto da loro ed è per loro. Nadine Labaki, lo interpreta e lo dirige e, dopo "Caramel", ci regala un affresco di resistenza su uno sfondo di un paese lacerato dalla guerra. Non conta quale: "E' il Libano, certo - dice la Labaki a Roma per la presentazione del film - ma la lotta tra vicini di casa potrebbe accadere tra sciiti e sunniti, tra bianchi e neri, insomma ovunque potrebbe. Molti potrebbero sollevare delle critiche al film, perché è altamente improbabile che eventi come quelli raccontati accadano nel mio paese. Cristiani che diventano musulmani e viceversa, è davvero impensabile. Così come ancora oggi un'unione tra due membri di due comunità diverse è davvero difficile. E' proprio per potermi sentire libera di raccontare questa storia che non ho voluto ambientarla in Libano, ma ho preferito utilizzare una sorta di racconto immaginario".
Ma conta anche il luogo fisico, il set reale, dato che il film è girato in tre villaggi diversi: Taybeh, Douma e Mechmech, il primo è situato nella Valle della Beqa' ed è un villaggio in cui realmente convivono la comunità cristiana e musulmana, nel quale la moschea si erge accanto alla chiesa, proprio come nel film. Conta che le donne ce la mettono tutta per proteggere la loro comunità dalla disgregazione, politica e religiosa, e se stesse. Conta che il film parla di un presente in cui "anche se ci piace pensare che le persone siano più emancipate e libere nei paesi arabi, in Libano, la comunità e la famiglia sono talmente importanti che vi è comunque ancora una sorta di paura che può essere tradotta in 'chissà cosa penseranno di noi?'. È ancora nell'aria la preoccupazione di ciò che gli altri possano dire di noi. In Libano, le facciate dei palazzi spesso sono bellissime, con i balconi colmi di bellissimi fiori. Ma sul retro, il cortile è una vera discarica. La stessa cosa vale per le persone: fanno finta di essere libere e che tutto sia a posto, ma di fatto, restano molti tabù da affrontare. Il motivo per tutto questo può essere ricercato nel fatto che non abbiamo ancora trovato una nostra identità". Conta che, unite, superano ogni differenza culturale. Conta "che donne cristiane e musulmane, diversissime, riescano a unirsi per tentare di evitare che i loro uomini si ammazzino tra loro. Non è un film sulla guerra ma una fantasia su come evitare la guerra".
Conta saperlo anche raccontare, come lei sa fare tessendo quotidianità e sogno, durezza e ironia, polvere e musical: "L'ironia serve per affrontare le difficoltà nella vita di ogni giorno, è una strategia di sopravvivenza. E io volevo che il film fosse una commedia e non un dramma, anche se parla di guerra e di amici-nemici. E volevo che riuscisse a provocare più risate che lacrime. L'ho fatto ancora una volta, come in "Caramel", parlando di donne, perché da donna so di cosa parlo ma ho scelto due uomini come co-sceneggiatori". E l'ispirazione non da un fatto reale ma da un realissimo sentimento: "Alla base del film c'è un'esperienza personale. Ho scoperto di aspettare un bambino il 7 maggio 2008. Quel giorno, a Beirut si passò nuovamente in uno stato di guerra e quindi, blocchi stradali, aeroporto chiuso, combattimenti armati, eccetera. La violenza si era scatenata intorno a noi. In quel periodo, stavo lavorando con Jihad Hojeily, un mio amico, nonché mio co-sceneggiatore e stavamo riflettendo sul mio prossimo film. In città c'erano scontri dappertutto nelle strade. La gente che aveva vissuto per anni nello stesso edificio, che era cresciuta insieme, magari anche frequentato le stesse scuole, improvvisamente stava combattendo contro altra gente, soltanto perché non appartenevano alla stessa comunità religiosa. A quel punto mi sono chiesta: se io avessi un figlio, cosa farei per distrarlo dal fatto di prendere in mano un'arma e riversarsi sulle strade? Cosa sarei disposta a fare per fermare il mio bambino che esce di casa pensando di dover difendere il suo edificio, la sua famiglia o il suo credo? È così che è nata l'idea per il film. È stata proprio l'esperienza della maternità a farmi concepire questa assurdità in modo più forte rispetto a prima e ho capito che volevo affrontare l'ossessione materna per proteggere i miei figli".