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La storia della tata magica venuta dal cielo inquadrata da una prospettiva inedita: quella della sua critica all’economia finanziaria. La ricostruiamo a partire dal romanzo a cui è ispirato il film con Julie Andrews, firmato dall'australiana Pamela Lyndon Travers

Il panico scatenato in questi giorni dal crac della Silicon Valley Bank ci ha riportato indietro di quindici anni, al 2008, agli scatoloni della Lehman Brothers. Oppure al crollo di Wall Street del 1929 che innescò la Grande depressione. Ma non disperate, perché qualche volta alle intemperie della vita, incluse quelle finanziarie, si può anche rispondere come faceva Mary Poppins, ovvero con un supercalifragilistichespiralidoso.
La storia della tata magica venuta dal cielo va infatti inquadrata anche dal punto di vista della sua critica all’economia finanziaria. L’originalissima governante, col suo infinito bagaglio (in tutti i sensi) di insegnamenti, educa i pargoli che è chiamata ad accudire a una nuova disciplina per cui libertà e fantasia hanno un ruolo primario nella vita delle persone, portando scompiglio non solo nella famiglia bene che ne ha richiesto i servigi ma in tutto l’ingessato contesto sociale borghese in cui si trova a operare. Inevitabilmente, però, un messaggio del genere cozza contro i principi del sistema capitalista sul quale quell’ambito si regge.

Il libro da cui è stata tratta la pellicola targata Disney è opera di Pamela Lyndon Travers (pseudonimo di Helen Lyndon Goff) e la prima edizione risale al 1934, quando il mondo ha già iniziato a pagare gli effetti del tonfo della New York Stock Exchange, ragion per cui si colloca in uno scenario generale di forte messa in dubbio dell’economia fondata sull’accumulo di ricchezza, stigmatizzazione figlia non solo delle riflessioni del filosofo Walter Benjamin (suo il libro “Il capitalismo come religione”, pubblicato nel 1921) ma anche e soprattutto delle teorie dell'economista britannico John Maynard Keynes che prendono di mira quel modello liberista il quale ha condotto le economie più avanzate a sbattere contro l’iceberg di un tracollo che non è stato il primo della storia della civiltà occidentale (si pensi alla Bolla dei tulipani del 1637 o al Panico di esattamente due secoli dopo, oppure alla crisi del 1857 o ancora a quella del 1907) ma di certo uno dei più fragorosi.

La questione del significato economico di Mary Poppins è discussa da tempo. Non si può affermare che sia un’opera di sinistra, non ha senso forse, ma di certo l’approccio alla vita (anche finanziaria) promosso dalla simpatica governante ha il sapore dello sberleffo anarchico. Cosa che per esempio non piace al fascismo, visto che il libro, pubblicato in Italia per la prima volta da Bompiani nel 1935, è inviso al regime mussoliniano perché “strania i figli dai genitori per creare sottomissione cieca alla governante”, come affermato nel 1938 da Nazareno Pellaro, un pedagogista devotissimo del Duce, in un suo intervento a un convegno sulla letteratura infantile.

La storia è ambientata nella Londra di inizio secolo scorso. L’impero britannico è la prima potenza globale e gli Stati Uniti non gli hanno ancora sfilato la leadership economica, politica e militare, dovendo ancora vincere due conflitti bellici mondiali e non essendo passati neppure cinquant’anni da quando han finito (?) di saldare i conti interni con la Guerra di secessione. Il paese è ancora in costruzione e sta ancora cercando di capire che farne delle decine di migliaia di immigrati, anche italiani, che ogni anno giungono via nave da oltreoceano.
La Travers era australiana e delineò i tratti della sua opera più famosa, prima di una serie che alla fine conterà ben otto capitoli, in età adolescenziale quando ancora viveva nel suo paese d’origine. Solo in seguito si sarebbe trasferita prima in Irlanda, dove entrò in contatto con i circoli letterari locali grazie anche alla conoscenza del poeta William Butler Yeats, e poi in Inghilterra, acquisendo la cittadinanza britannica. L’intento iniziale di questa fiaba sostanzialmente autobiografica era dettato da ragioni prima di tutto familiari, perché la Travers fu lei per prima una tata, ma delle sorelle minori. Non fu una bella infanzia, quella della scrittrice. La madre era depressa, il padre alcolizzato, e per alleviare le pene delle sue sorelline, la ragazza si inventò la storia dell’arrivo in famiglia di questa eccentrica au pair, ispirandosi alla figura solare e carismatica di sua zia Ellie.
Mary Poppins quindi per certi versi è esistita davvero. Ma anche il suo antagonista principale, Mr. Banks, è esistito davvero tanto che i tratti caratteriali dell'uomo furono ripresi dallo stesso papà di Pamela, il signor Robert Goff, un modesto impiegato di banca che sarebbe morto a soli 43 anni proprio per gli effetti della sua dipendenza.

Possibile che la narrazione in origine non prevedesse di misurarsi con questioni macroeconomiche le quali molto probabilmente non rientravano nel novero di conoscenze della Travers, che era nata nel 1899 e che quando si inventò Mary Poppins poteva avere al massimo una quindicina d’anni. Ad ogni modo, non fu nel natio Queensland australiano che la romanziera iniziò la stesura vera e propria del romanzo, ma nel Sussex inglese nel 1933, quando di anni ne aveva trentaquattro. Quindi era altresì plausibile che l’acume polemico dello scritto fosse un’aggiunta post-crisi economica, mentre per esempio i suoi riferimenti esoterici (sì, c’erano anche quelli) fossero riconducibili al periodo dublinese (diversi letterati irlandesi dell’epoca, tra cui lo stesso Yeats, erano membri dell'associazione occultista nota come Golden Dawn).

Tornando alla prospettiva economica, non si può non partire proprio dal personaggio di George Banks, il capofamiglia che all’inizio della storia cerca una nuova nanny per quei discoli dei suoi due figlioletti. Banks di professione fa, nomen omen, il bancario, ma non un bancario qualunque come Robert Goff bensì quasi un banchiere. Nel suo istituto di credito è una figura apicale, prende parte ai board come un’azionista di rilevanza, e ciò lo rende la personificazione di quel sistema economico, di quella ideologia totalizzante, distruttrice e “colpevolizzante” (per dirla con il summenzionato Benjamin) che strangola ogni velleità di fuga, di capacità di apprezzare le cose più semplici, l’antitesi della “decrescita felice”.

Banks (interpretato sullo schermo da David Tomlinson, il villain anche di un altro film Disney, quello su Herbie, il maggiolino tutto matto) è prigioniero inconsapevole di una vita arida, grama, improntata all’ossequio delle regole del denaro, dei freddi numeri, dell’eterna e meccanica ripetitività di formulette preconfezionate inculcate nelle facoltà di economia, dei diagrammi monetario/finanziari che per forza di cose devono “tendere all’insù”, pena la rovina di un mondo che lui e quelli come lui hanno edificato. Ragion per cui è anche un tenace sostenitore, un ultrà (o per meglio dire un hooligan) delle tradizioni secolari, tra le quali immancabile quella British per eccellenza della caccia alla volpe a cui fa compiaciuto riferimento nello stralcio di uno dei suoi monologhi musicati. Tra i suoi dogmi ci sono il mantenimento dello status quo, la bontà delle convezioni sociali e delle consuetudini che animano il suo universo borghese. Tra le sue professioni di fede, quelle alla praticità, all’utilità, alla conservazione, perché i ricchi, inclusi i proprietari dei mezzi di produzione, sono per definizione reazionari non solo in politica ma in ogni loro manifestazione. I ricchi sono i padroni del mondo e per questo Banks, in una delle scene più significative nell’ottica anticapitalista qui presa in esame, può permettersi di considerare un suo subordinato perfino il bobby che un giorno gli riporta a casa i bimbi smarritisi nel parco per recuperare un aquilone e offrirgli come ristoro un piatto di minestra alla stregua di un galoppino personale. Del resto le forze dell’ordine sono lo Stato e lo Stato, dal punto di vista marxista, è una delle sovrastrutture poggianti sulla struttura principale, che è appunto l’economia.

In tal senso, altro episodio illuminante è quello che si svolge in banca. Qui il presidente è l’avidissimo e odioso superiore di Banks, il signor Dawes. Nell’ideologia liberista la gerarchia conta, e insieme a quello militare, l’ambito aziendale è forse l’unico in cui tutto sommato essa oggi è socialmente accettata. In azienda non c’è democrazia ma uno che dà ordini e tutti gli altri che obbediscono, tant’è vero che quando si viene assunti in un’azienda la prima cosa che si impara è chi comanda. Dawes, dicevamo. Pur di aprire un nuovo conto corrente nei caveau da lui amministrati, il vecchio fa di tutto per convincere Michael, il più piccolo dei figli di Banks, a depositare i due penny che il ragazzino si è tenuto in tasca per “comprare da mangiare ai piccioni”. Ne nasce un parapiglia che dà il via a un effetto domino disastroso per la stessa banca, visto che i clienti che assistono alla scena, pensando che l’istituto non sia in grado di restituire i soldi, si precipitano in massa agli sportelli a ritirare i loro risparmi, salvo poi constatare che il denaro, una volta versato, appartiene solo nominalmente a chi ce l’ha messo, perché – come si sa – solo una piccolissima percentuale resta effettivamente nella disponibilità della banca mentre il resto prende la strada del cosiddetto moltiplicatore. Basta il solo sospetto che l'istituto sia insolvente a scatenare il cosiddetto bank run, la corsa agli sportelli che abbiamo visto anche in questi giorni nella vicenda della Svb.
D’altra parte la fiducia in economia è tutto e quella nelle banche e nel fragile equilibrio che ne caratterizza l’apparato è qui spiegata nel modo più comico ed elementare, ancorché efficace, un po’ come negli anni Ottanta farà il regista John Landis nelle sequenze finali, ambientate alla Borsa di New York, del suo arcinoto film natalizio “Una poltrona per due”. Come nella pellicola con Eddie Murphy e Dan Aykroyd, la scena dura una manciata di minuti ma riassume il senso della storia, è irriverente, eversiva, potenzialmente devastante. Il concetto è semplice: se crolla la banca crolla il Paese, se crolla il Paese crolla l’Impero. A volerlo rappresentare con un’immagine, sarebbe il soggetto ideale per un’opera di Banksy, con tanto di schiere di poliziotti in uniforme a cercare di riportare l’ordine col manganello. E qui giungiamo a un’altra constatazione: uno stato capitalista, per quanto democratico e liberale, diventa poliziesco qualora se ne minacci l’assetto economico. Verità banale ma pur sempre deprimente: i soldi fanno girare il mondo.

Ma c’è ancora una speranza. È la gioia di vivere, impersonata non solo dalla protagonista, che grazie al suo ascendente rimette tutti in riga, ma anche da un altro personaggio chiave della vicenda: il suo compagno di scorrerie cittadine Bert, l’umile tuttofare che chiede la carità sui marciapiedi e conosce mille mestieri, dall’artista di strada allo spazzacamino. Lui non si presta al gioco, sa che restare bambini, sognare, è la chiave per non essere inghiottiti dalla “macchina”. Il messaggio è potente nella sua elementarità e intriso di quell’ottimismo che sarà, per esempio, cifra dominante del cinema di Frank Capra (e di Sylvester Stallone): le persone possono cambiare (tutto il mondo può cambiare).
Intendiamoci, però. Mary Poppins non propone il rovesciamento dei rapporti tra classi e lo zucchero di cui ne basta un poco e la pillola va giù è magari quello necessario a deglutire l’amara pasticca liberista. Pertanto ci si ferma alla critica. La Travers non declama la rivoluzione perché probabilmente sa che le bambinaie (e gli spazzacamini) non hanno una coscienza di classe e chiedono al ceto dominante solo un po’ di umanità. In questo senso la storia profuma di spirito dickensiano. La redistribuzione delle risorse affidata al buon cuore, alla carità, all’eventuale (e mica scontata) indulgenza dei padroni, alla loro supposta generosità. Stimolare i buoni sentimenti per avere una società più giusta, senza preconizzare la dittatura del proletariato. Va bene “Il Capitale” ma siamo più dalle parti di “Canto di Natale”.

Il ricchissimo e avaro uomo d’affari, il paperone con cappello e palandrana che a dispetto dell’abbondanza delle proprie risorse conduce una vita fin troppo frugale, tante volte rappresentato al cinema o al teatro (per esempio quello che vessa James Stewart/George Bailey in “La vita è meravigliosa”) è chiaramente ispirato al personaggio di Ebenezer Scrooge, plasmato dalla penna di Charles Dickens nel suo romanzo più noto la cui prima edizione fu data alle stampe nel 1843. Nei paesi anglosassoni il marxismo non ha mai attecchito davvero (John Steinbeck per esempio sosteneva che negli Stati Uniti non è accaduto perché i poveri non vedono se stessi come membri oppressi del proletariato, bensì come milionari in temporanea difficoltà).
In Gran Bretagna nell'Ottocento non esisteva un panorama variegato di idee e movimenti socialisti, nonostante la nascita nel 1825 delle Trade Unions, le prime organizzazioni sindacali, e le riforme di Robert Owen, un industriale del settore tessile che migliorò le condizioni lavorative dei suoi operai. Tutt’al più alcuni autori contestavano il modello di sviluppo fondato sul capitalismo più spinto, ed ecco dove affonda le radici la presa di distanza in salsa anglofona dall'economia liberista, che oltre al romanziere Dickens (il quale faceva infine redimere Scrooge) aveva nel filosofo ed economista John Stuart Mill un altro illustre esponente. Nel suo volume "Principi di economia politica", pubblicato la prima volta nel 1848, il pensatore utilitarista sosteneva che dovessero essere i principi etici (quindi riconosceva il problema dell’etica), quelli deputati a guidare la vita sociale (quindi esisteva una dimensione sociale) e a organizzare la redistribuzione della ricchezza (quindi si poneva il problema dello squilibrio economico tra gli individui): in pratica nel suo pensiero si combinavano ideali liberali e socialisti. Se le leggi della produzione dipendono dalla necessità naturale – sosteneva il filosofo – le leggi della distribuzione dipendono dalla volontà umana e l’egoismo può essere affiancato all’altruismo poiché la felicità del singolo (ed eccoci all’utilitarismo, corrente sostenuta da Stuart Mill) è dovuta anche alla felicità degli altri.

Il piglio ribelle di "Mary Poppins" trova ulteriore sbocco nel relativo film, chiaramente figlio dell’epoca in cui esce nelle sale tanto che all’afflato keynesiano degli anni 30 affianca quello psichedelico dei 60 che di lì a poco confluirà nella controcultura giovanile della Summer of love, delle proteste contro la guerra in Vietnam, di Woodstock. Si è a lungo discusso se i lungometraggi Disney dell’epoca fossero o meno frutto anche dell’esperienza lisergica (per dire, il summenzionato primo film su Herbie uscì nel 1968, il titolo originale era “The Love Bug” e la vicenda ambientata a San Francisco nel 1968). Rispetto al libro la pellicola è molto più fantasiosa e può darsi che certe bislacche trovate ai limiti del paranormale, in questo come in altri film della casa, siano state ispirate anche dall’utilizzo di sostanze allucinogene da parte degli autori. Anzi, visti i tempi di cui si parla, sarebbe strano il contrario. Il dibattito sulla natura “acida” di certi film della storica casa di produzione losangelina rafforza il discorso sul lato contestatore e sinistrorso di “Mary Poppins”, anche se poi, per paradosso, esiste pure una nutrita letteratura su Walt Disney anti-comunista (ma nei suoi confronti pendono altresì accuse di antisemitismo, razzismo e sessismo).

Il papà di Topolino restava comunque un businessman e nel 1963 dovette vedersela con la Travers, che era un osso durissimo. La donna dapprima si mostrò riluttante alla richiesta di cedere i diritti del libro e poi, una volta accettato di vederlo trasformare in film, osteggiò alcune delle sequenze da lei ritenute inutilmente immaginose (per esempio quella, animata, in cui i protagonisti vengono “risucchiati” in un dipinto sul marciapiede) ma soprattutto si oppose alla rappresentazione data di George Banks (a suo avviso troppo freddo e crudele), tanto che il rapporto con il produttore che l’aveva invitata a Los Angeles per farle soprintendere alla trasposizione sul grande schermo si rivelò assai complicato (circostanza divenuta a sua volta un film nel 2013, “Saving Mr. Banks”, con Emma Thompson e Tom Hanks). Alla fine però gli screzi si appianarono e il risultato fu il film con Julie Andrews che, con una buona dose di obiettività, rappresenta uno dei migliori targati Disney nonché uno dei più belli della cinematografia tutta, anche (o soprattutto) perché ebbe il merito di non smontare, ma anzi addirittura di puntellare, l’impianto anticapitalista del romanzo.





Mary Poppins e la critica all'economia finanziaria