Un volume che ripercorre la vita personale e artistica di uno dei cineasti più controversi della vecchia Europa, capace di scandalizzare e imbarazzare anche quella parte di Hollywood più abituata ai personaggi "irregolari". Curato dal nostro Antonio Pettierre e da Fabio Zanello
Un'opera di giustizia, risarcitoria. Questo è il volume "Il cinema di Paul Verhoeven", curato da Fabio Zanello e Antonio Pettierre. Non una monografia nel senso classico del termine, ma un insieme di impressioni, di ragionamenti, di evidenze sul cinema dell'autore olandese, uno dei nomi più contestati dalla critica, ma anche dal pubblico. La contestazione contro Verhoeven, in realtà, non è dovuta a un generale senso di indignazione, ormai ampiamente archiviato dai tempi e dall'evoluzione dei costumi del mondo occidentale. Il dibattito sull'opera di questo regista si è fatto negli ultimi anni più circoscritto alla sua arte: è vera gloria? Si tratta davvero di un cineasta che ha molto da dire (e da dare) riguardo la Settima arte? Oppure è una filmografia, la sua, che costituisce un gigantesco equivoco? Siamo di fronte a un libro che ristabilisce la verità, affrontando i punti più alti, quelli più bassi e le trasformazioni di una carriera che ha seguito un percorso assolutamente originale. Verhoeven, come sappiamo, nativo di Amsterdam, ha iniziato la sua attività in patria, per poi essere notato dai produttori americani che non si sono limitati a convocarlo sotto l'ala protettiva dell'industria americana, ma gli hanno davvero aperto le porte della Hollywood più sfavillante, quella dei grandi finanziamenti, dei progetti altisonanti, delle star e dei tappeti rossi scintillanti di flash e riflettori.
Al culmine di tutto ciò o, meglio, al principio di una parabola discendente dovuta alla perdita di un consenso più incisivo, l'autore olandese è tornato in Europa dove, sperimentando un cinema che rasenta l'autoproduzione, ha proseguito su un crinale che ha finito per portare alle estreme conseguenze tutte le istanze creative che egli aveva già disseminato nel corso di quasi trent'anni di cinema. Chi legge Ondacinema conosce la penna straordinaria di Antonio: è un conoscitore profondo della tecnica e dell'evoluzione del cinema occidentale, soprattutto in relazione a quelle filmografie che si sono caratterizzate negli anni per elementi di improvviso stupore. È il caso di Verhoeven che, da vecchio europeo, ha incarnato meglio di molti statunitensi lo spirito di un tempo specifico della Mecca del cinema a stelle e strisce, quello della prima parte degli anni 90 anzitutto.
Come dicevamo il volume raccoglie molti saggi che ripercorrono la vita artistica del cineasta, partendo dalle origini fino alle ultime irruzioni al Festival di Cannes. In queste righe, che vogliono essere un invito alla lettura più che un'analisi critica della materia oggetto di disamina, ci limitiamo ad evidenziare alcune caratteristiche che il libro mette in evidenza. Prendiamo la prima parte dell'opera verhoeviana. In due film ci sono i germogli già maturi di quanto il regista farà vedere in America. Se prendiamo "Soldato d'Orange", oltre a intravedere quello spirito già disincantato e fatalista nell'osservare gli orrori della Storia, ci accorgiamo di come il senso per l'azione spettacolare, a tratti spinto oltre i limiti del filmabile relativamente a un'opera prodotta con possibilità non certo sconfinate, fosse quello che poi sarebbe esploso nello sci-fi hollywoodiano. Vi si nota la stessa visione d'insieme, la stessa abilità di immaginazione e messa in quadro degli spazi (le due azioni nell'action di Verhoeven sono inscindibili e senza l'una l'altra perderebbe di spessore e di valenza), persino la stessa concezione del mondo, ispirata all'eroismo, ma ancorata alla fallibilità. Se ci spostiamo a considerare un'altra pellicola capitale nell'evoluzione del pensiero dell'autore, "Il quarto uomo", non solo ritroviamo le basi di quel neonoir dominato dalla donna fatale e letale che poi troverà la definitiva consacrazione in "Basic Instinct", ma 33 anni prima di "Elle" Verhoeven già sarà in grado di confrontarsi con le ossessioni indicibili della religione cattolica. In un connubio di sessualità repressa, incubi del subconscio e senso deviato per la fede, infatti, "Il quarto uomo" è forse il manifesto artistico numero uno, il primo dei diversi che arriveranno successivamente. Non stupisce, allora, che Fabio Zanello scriva di suo pugno un intervento in cui i tre titoli sopra citati vengono affiancati. Un film del primo periodo olandese, uno dell'epoca Oltreoceano e un terzo del ritorno in Europa (allorché Verhoeven diventa un regista senza nazionalità, un artista di un intero Continente, uno dei più abili e acuti osservatori delle contraddizioni insite nel Vecchio Mondo in cui viviamo).
Una piccola ammissione: chi scrive queste poche righe è rimasto impressionato dai due interventi dello stesso Pettierre su due titoli fondamentali come "Robocop" e "Atto di forza". In poche pagine, Antonio coglie l'originalità del dittico fantascientifico realizzato nella seconda metà degli anni 80. Un primo film precursore dei tempi, anticipatore di una visione del genere sci-fi che diventerà comune nel decennio seguente; la macchina, in "Robocop", diventa metafora della rigenerazione continua, nasconde una visione umanista della tecnologia, che rimane nulla senza il calore dell'essere vivente. Senza essere dickiano in senso stretto, il lungometraggio del 1987 lo è quasi inconsapevolmente, in modo ineluttabile. Dove "Robocop" guarda al futuro, anche attraverso una similitudine cristologica che, come abbiamo già accennato, diventerà una vera e propria ossessione durante la maturità per Verhoeven, "Atto di forza" omaggia il passato, fotografa, proprio a cavallo del passaggio tra due epoche (gli anni 80 da una parte e i 90 dall'altra), gli incubi di una generazione, la paura della manipolazione e della perdita di una memoria collettiva. Nei suoi due interventi, Pettierre coglie perfettamente questa distinzione tra le due opere, che finiscono in realtà per diventare gemellate nella loro diversità.
Vale la pena soffermarsi anche su un altro aspetto che il libro coglie molto acutamente, ovvero una fascinazione di Verhoeven per l'effetto kitsch che, con il passare degli anni, è diventato, a seconda dei casi, strumento di provocazione, occasione di divertimento ludico, scudo grazie al quale difendersi dagli strali della critica più distratta. Giuseppe Gangi, altro storico redattore di questa webzine, parte da una riflessione su "L'uomo senza ombra" del 2000 (l'ultimo film in terra straniera di Verhoeven) per poi allargare lo sguardo a un utilizzo dell'approccio camp alla messa in scena visiva assolutamente consapevole, uno specchio dei tempi, un riflesso di qualcosa che è presente nella contemporaneità e che l'autore non vuole evitare di mettere al centro delle sue inquadrature. È una missione lodevole, quella di Pettierre e Zanello, volta, anche con l'aiuto di una capillare documentazione biografica, a tratteggiare un ritratto non solo di una filmografia, ma anche di una vita intera spesa a sfidare il sentire comune con il supporto della propria coerenza intellettuale. Non tutti siamo d'accordo sulla resa finale dell'opera di Verhoeven, questo è innegabile. Nella nostra stessa redazione non è certo un regista che mette d'accordo le diverse sensibilità critiche. Il sottoscritto, che pure aveva scritto di "Elle" in toni assolutamente positivi, ritiene, ad esempio, che quella sfida di cui scrive Gangi (che meriterebbe più di un dibattito, probabilmente) sia stata motivata da reali esigenze espressive in poche occasioni, mentre in diversi altri momenti lo spirito votato all'indisciplina abbia preso il sopravvento. Ma è evidente che il volume in oggetto ha un grande merito, quello di riaprire (o, se preferite, suggerire) un ragionamento su una produzione fondamentale per comprendere l'evoluzione di diversi periodi: il cinema off del Nord Europa tra la fine degli anni 70 e l'inizio degli anni 80, la Hollywood tra gli 80 e 90 e infine l'intellettualismo borghese della decrepita Europa nel nuovo millennio.