Ryan Murphy e Ian Brennan ripercorrono le pagine più terrificanti della cronaca nera americana con una serie antologica dedicata di stagione in stagione ai più efferati serial killer e brutali assassinii dello scorso secolo
Monster: The Jeffrey Dahmer Story
Non era impresa facile trovare un modo non banale di produrre una serie tv su uno dei serial-killer più crudeli e famigerati della storia americana. Oltre alla necessità di preservare il rispetto per le vittime e i loro parenti, c'era soprattutto il rischio concreto di ammantare di un fascino perverso una figura così terribilmente negativa come quella di Jeffrey Dahmer. Da molti punti di vista, il serial-killer di Milwaukee può considerarsi il prototipo del mostro, del male assoluto. Assassino, stupratore, cannibale, pedofilo, necrofilo, splancnofilo: Dahmer condensa in una sola persona tutti gli aspetti più mostruosi e raccapriccianti che ci si potrebbe aspettare da un essere umano. Sarebbe stato quindi facilissimo scadere in un racconto dal taglio prettamente documentaristico, magari con una cura maniacale del dettaglio, anche del più cruento.
Prevedibilmente, però, non è stata però questa la scelta di un produttore e showrunner geniale e iconoclasta come Ryan Murphy, uno che tra "Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer" e "The Watcher" ha monopolizzato per un buon paio di mesi di questo 2022 il podio dei prodotti più visti di Netflix. Murphy è anche uno dei pochi autori ai quali è consentito proporre qualsiasi richiesta di budget e idee anche apparentemente balzane, proprio in virtù dell'enorme seguito che vanta.
Ha stupito anche questa volta Murphy, ma per ragioni diametralmente opposte alle solite. Al posto dello stile eccentrico, queer e a tratti surreale dei vari "Nip/Tuc", "Pose" e dei talvolta esagerati capitoli di "American Horror Story", in "Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer" l'autore di Indianapolis lascia filtrare il suo animo più delicato e rispettoso, oltre a un'inedita capacità di lavorare per sottrazione.
È da questo punto di vista esemplificativa la sceneggiatura: per quanto si respiri un clima costantemente malato e angosciante e non manchino senz'altro scene disturbanti, non c'è mai il gusto per il dettaglio macabro, che nella storia di un serial-killer di certo non si farebbe grande fatica a rinvenire. La telecamera si allontana sempre giusto un attimo prima dell'inevitabile, al massimo vengono concessi sparuti secondi ai sinistri rumori degli strumenti con cui Dahmer mutilava le sue vittime e al frantumarsi delle loro ossa, sempre percepiti indirettamente, tramite l'intermediazione dei vicini di casa.
Con una storia nota e terrificante come quella del Mostro di Milwaukee, del resto, non vi è bisogno di mostrare nulla. Ad angosciare, a farci sentire il tanfo asfissiante che tormentava i vicini di casa del mostro, basta la fotografia filtrata di giallognolo sugli interni dell'appartamento dove si consumavano le esecuzioni.
La miniserie targata Netflix si concentra molto sulla psicologia del protagonista, non cercando di trovare giustificazioni, ma seguendo - in un percorso altalenante tra flashback e flashforward - l'infanzia difficilissima di un bambino cresciuto da una madre con gravi disturbi psichiatrici e da un padre incapace, e talvolta disinteressato, a proteggerlo. Un carnefice che però è anche - in parte - una vittima, che probabilmente per tutta la vita non ha fatto altro rievocare gli unici momenti felici della sua infanzia, quelli in cui si dedicava da solo col padre alla tassidermia, unico momento della sua fanciullezza in cui probabilmente si è sentito protetto e sicuro. Colpisce, quindi, come molto spesso in Dahmer vi sia un'ambivalenza, egregiamente rappresentata dall'interpretazione camaleontica di Evan Peters. Da una parte il suo viso da timido ragazzo indifeso, che cela un fortissimo istinto omicida privo di ogni minima empatia verso le sue vittime; dall'altra, all'opposto, la malvagità che lascia spazio a minimi scampoli di umanità, ad esempio nel momento in cui decide di drogare le sue vittime per non farle soffrire o quando, nella puntata finale, sottolinea le differenze tra lui e il serial-killer coevo John Wayne Gacy.
La vera particolarità della serie risiede però nella scelta di Murphy di dedicare in realtà ben poco al punto di vista di Dahmer, rendendolo quindi soltanto una delle numerose voci di un racconto complesso e articolato come un mosaico. Anzitutto, c'è il punto di vista delle vittime e con esso il vero, masochistico, stratagemma dell'autore. Il trucco attraverso il quale la serie colpisce lo spettatore più di quanto avrebbe potuto fare con scene gore e splatter. Lo showrunner ce li fa conoscere quasi tutti, a uno a uno, i ragazzi abusati, torturati e infine uccisi da Dahmer. Ci fa simpatizzare per loro, comprendere le loro situazioni di disagio, ci lascia entrare nei loro pensieri e nei loro sguardi fino all'epilogo di ognuno di loro. È ad esempio superbo quanto crudele il lavoro effettuato nell'episodio numero 6, "Silenced", dove Jeffrey è quasi relegato al ruolo di comprimario di Tony (Rodney Budford). Impossibile non provare empatia per questo esuberante e spontaneo ragazzone sordomuto che sogna di diventare un modello: sappiamo già che non riuscirà a cambiare Dahmer, ma la sua purezza e la sua forza per un attimo ci illudono, spingendoci a sperare nella sua salvezza con tutti noi stessi.
Molto spazio viene poi concesso ai familiari di Dahmer, in particolare al padre Lionel. Affidato a un caratterista purosangue come Richard Jenkins, qui in una delle sue migliori interpretazioni, il personaggio è tra i più complessi e dolorosi dell'intera messinscena. Nei primi episodi, quelli in cui viene raccontata la formazione di Jeffrey, appare come un padre assente, troppo interessato a uno sterile e infinito conflitto con la moglie per poter davvero comprendere i problemi del figlio. E anche quando riesce a intuire qualcosa, non è mai abbastanza risoluto e severo, risponde, anzi, allontanando ulteriormente il figlio, facendolo ad esempio arruolare nell'esercito.
Anche dopo l'arresto di Dahmer, pur sconvolto, reagisce in maniera puramente egoistica, ripetendo l'errore di nascondere le proprie responsabilità cercando di incolpare l'ex-moglie. Solo tempo dopo arriverà a incolparsi per le tendenze necrofile del figlio, ma allo stesso tempo, in una sconcertante altalena di ambiguità, si mostrerà soddisfatto di aver scritto un libro sulle vicende dell'assassino e di aver dunque trovato finalmente la sua strada come scrittore.
È però Glenda Cleveland, la resiliente vicina di casa di Jeffrey Dahmer, a divenire l'epicentro di un altro importante livello costruito da Murphy. Certa dei misfatti di Dahmer, la donna afroamericana che condivideva il piano con il Mostro di Milwaukee, e che poteva dunque avvertire il terrificante olezzo proveniente dalle sue stanze, chiamerà più volte la polizia della città per cercare di trarre in salvo alcune vittime, ma le autorità la ignoreranno insistentemente, arrivando persino a restituire una giovane vittima alle mani del suo carnefice. Il suo personaggio è la chiave per penetrare in un altro tema centrale della serie: quello del razzismo nella società americana dell'epoca, che contribuì a ostacolare e insabbiare le indagini. Sia la polizia, sia il giudice del primo processo per stupro nei confronti di Dahmer si mostrano a più riprese diffidenti e scettici nei confronti delle vittime, come il giovane asiatico accusato persino – in un surreale ribaltamento delle parti – di non parlare correttamente la lingua del paese che lo ospita. Non prestando la dovuta attenzione alle vittime, appartenenti in gran parte a minoranze etniche e sessuali, la polizia finisce così con l'apparire quasi connivente con l'assassino. E la serie si fa particolarmente pungente quando sceglie di terminare un episodio con la trascrizione di una vera telefonata della Cleveland alla stazione di polizia o quando, al termine dell'episodio conclusivo, rivolge una dedica a tutte le vittime di Dahmer, andando a sostituire di fatto il memoriale che le autorità cittadine hanno promesso ma mai realizzato.
Affidandosi alla regia di ottimi nomi quali Paris Barclay, Gregg Araki, Clement Virgo e Jennifer Lynch (figlia di David), la serie - quasi interamente scritta da Ryan Murphy e Ian Brennan, ai quali si aggiunge negli episodi finali Reilly Smith - è imperniata su una messinscena molto asciutta, che nel suo incedere lento non eccede mai in virtuosismi e non mostra o dice mai più del dovuto.
Segue questo approccio in punta di piedi anche la colonna sonora del rodato binomio Nick Cave/Warren Ellis, che punta tutto su minacciosi droni e soltanto negli ultimi episodi si lascia andare in trame un po' più articolate, ma sempre profondamente atmosferiche.
Interessante, infine, che la scena più violenta dell'intera serie, che a questo punto forse bisogna chiamare stagione, non sia dedicata alle gesta criminali di Dahmer ma a quelle di John Wayne Gacy, il clown e serial-killer pedofilo che terrorizzò l'Illinois degli anni 70. Oltre che di un parallelismo con Dahmer, si potrebbe trattare di uno spoiler sul protagonista della prossima stagione di quella che, sin dal titolo, sembra essere pensata come una serie antologica. Si tratti o meno soltanto del primo volume di una serie, "Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer" è un lavoro autosufficiente e rigoroso che, grazie alla coerenza stilistica, al rispetto per il tema trattato e alla ricchezza di sfaccettature della sua messinscena, si può certamente annoverare tra i vertici della produzione seriale di quest'anno.
Voto: 8
Monsters: The Lyle And Erick Menendez Story
E' dunque arrivata una seconda stagione di quello che è ormai un franchise e che possiamo chiamare semplicemente "Monsters". Invece che John Wayne Gacy, che ci saremmo potuti aspettare come protagonista, abbiamo però ben due protagonisti, gli alto-borghesi fratelli Menendez, che scossero le fondamenta della società e del sogno americano con l'omicidio dei propri genitori, massacrati brutalmente con dei fucili a pallettoni.
Qual è il confine tra il bene e il male? Esiste una netta separazione o vi è una continua ambiguità per cui tutti possono rappresentare a volte il bene e a volte il male, in una continua alternanza tra il ruolo del carnefice e quello della vittima? E’ questo il messaggio principale che la seconda stagione di Monster vuole raccontare, facendoci perdere costantemente le nostre certezze, portandoci a pensare quasi in ogni puntata qualcosa di differente da quanto eravamo stati indotti a pensare solo nella puntata precedente.
La storia tragica e incredibile dei fratelli Lyle ed Erik Menéndez d'altronde porta inevitabilmente a questa ambiguità. Qual è il momento in cui un bambino - quindi un essere puro e indifeso - quotidianamente maltrattato e abusato diventa un mostro? E quando lo diventa, è davvero un mostro o è solo un individuo che legittimamente cerca di difendersi? La storia della famiglia Menéndez diventa da tantissimi punti di vista un manifesto della società americana.
Da un punto di visto sociologico perché i Menendez sono la realizzazione del perfetto sogno americano (che nasconde sotto il tappeto una vita da incubo), vivono mettendo costantemente il profitto in primo piano, profitto che salva dalle proprio responsabilità il padre carnefice, a cui è tutto è concesso proprio in quanto uomo di successo con una quantità illimitata di denaro e di conseguenza una libertà che va ben oltre la morale comune. Questo status di uomo cattivo ma vincente gli consentirà di mantenere un’aura quasi divina agli occhi della moglie e dei due poveri fratelli, sino almeno al tragico finale.
Dal punto di vista psicologico siamo di fronte a un trattato di psicologia sulla violenza sui minori che si protrae da generazione in generazione senza avere mai fine, dimostrando come la vittima di violenza si abitui ad essa riproponendola - seppur in modalità differente - non appena le possibilità lo permetteranno.
Dal punto di vista giudiziario il caso Menendez dimostra i limiti della giustizia americana (dalla giustizia che diviene spettacolo televisivo ai giudici che, considerata la loro carica elettiva, devono essere molto attenti all’umore dei propri elettori), con Lyle e Erik a un passo dall’assoluzione nel primo processo, che vengono poi annichiliti da un giuria e da un pubblico ormai stanchi di un processo interminabile.
La peculiarità della seconda stagione di Monster è proprio l'ambiguità voluta dai due sceneggiatori Ryan Murphy e Ian Brennan. A differenza della prima stagione dedicata a Dahmer, mostro autentico e senza attenuanti, le nove puntate di “Monsters: la storia di Lyle ed Erik Menéndez” tendono a confondere volontariamente lo spettatore, ricreando probabilmente gli stessi dubbi che vennero nella mente di tutti i membri della giuria. Se inizialmente è facile parteggiare per Lyle o Erik, o almeno comprendere i motivi del loro folle gesto, nelle puntate successive la regia ci porta a pensarla diversamente, o almeno a mettere in dubbio ciò che prima sembrava sicuro.
Le differenze tra la prima stagione di Monster e questa seconda non sono soltanto tematiche. Gli interi comparti scenografico, costumistico e fotografico operano infatti in direzioni completamente differenti. Mentre nella stagione dedicata a Dahmer osserviamo una Milwakee spettrale e claustrofobica e il color grading tendente al giallo intorbidire gli interni dove il mostro violentava e smembrava le sue vittime, in questa nuova sono i toni sgargianti della California e del Jet Set dei primi anni ‘90 a farla da padrone, con a corollario abiti firmati, interni lussuosi e sfavillante pop d’epoca (fantastico, ad esempio, l’utilizzo di “Don’t Dream It’s Over” dei Crowded House). Si va così a creare contrasto ancora più marcato tra le apparenze e la disperazione e i traumi che celati sotto di queste.
Rispetto a “Monster: The Jeffrey Dahmer Story”, un dramma solido e scioccante dall’inizio alla fine, “Monsters: The Lyle And Erick Menendez Story” perde un po’ di scorrevolezza a causa del meccanismo a flashback continui, dilungandosi forse un po’ troppo ad andare e venire da una parte della storia all’altra, nonché da un punto di vista all’altro. Pur funzionale al gioco dei punti di vista evidenziato anteriormente, la struttura a singhiozzo finisce con il ledere la fruizione degli episodi (sia centrali che finali), alcuni dei quali risultano quasi innecessari.
Detto questo, non si può non elogiare il coraggioso episodio numero 5: un’unica inquadratura che si restringe via via sul volto di Ertick Menendez (un Kooper Koch per il quale è facile prevedere un futuro brillantissimo) intento nella sua drammatica confessione all’avvocato di difesa (Ari Graynor). Non si può poi non citare la performance di Javier Bardem, impressionante nel tratteggiare l’imponente ambiguità del patriarca Jose Menendez.
Voto: 7,5
Ricca di mostri com’è, la storia americana garantisce al duo Murphy Brennan materiale per arricchire ad libitum questa serie antologica. E così è già stata annunciata una terza stagione che preannuncia il ritorno a un mostro vero. Quel Ed Gein che sul finire degli anni ‘50 terrorizzò il Wisconsin con ben 7 omicidi (quelli provati) e annessi squartamenti, il quale avrà le fattezze di Charlie Hunnam, chiamato a fornire una performance degna dei vari Evan Peters, Javier Bardem e Cooper Koch.
titolo:
Monsters
titolo originale:
Monsters
canale originale:
Netflix
canale italiano:
Netflix
creatore:
Ryan Murphy, Ian Brennan
produttori esecutivi:
Ryan Murphy, Ian Brennan, Janet Mock, Carl Franklin, Alexis Martin Woodall, Eric Kovtun, Jen Isaacson, Leslie Mattingly, Evan Peters
cast:
Evan Peters, Richard Jenkins, Molly Ringwald, Michael Learned, Niecy Nash, Javier Bardem, Cooper Koch, Chloe Sevigny, Nicholas Alexander Chavez
anni:
2022 - In corso