Alla fine del "Dottor Zivago", il protagonista che aveva il volto di Omar Sharif scende di corsa dal tram perché, tra la folla, gli sembra di aver scorto l'amata Lara. Quella corsa gli è però fatale e muore, stroncato da un infarto. E, forse ironicamente, dopo una corsa durata 83 anni, Omar Sharif ci ha lasciati a causa di un arresto cardiaco. All'inizio di quest'anno, secondo quanto riferisce il suo agente Steve Kenis, gli era stato diagnosticato il morbo di Alzheimer. Sharif era nato ad Alessandria d'Egitto il 10 aprile del 1932 e aveva vinto due Golden Globe per "Lawrence d'Arabia", film per il quale aveva anche ricevuto una candidatura all'Oscar, e un secondo per "Il Dottor Zivago".
Ha vissuto almeno tre vite: da star, da giocatore di bridge, da seduttore e artista della vita. La sua faccia sembrava ormai scolpita nel tempo, con quegli occhi brillanti, i baffoni e il sorriso sornione, in una carriera costellata da oltre cento film sotto il segno dell'irregolarità, tra passioni, debiti, curiosità e voglia di vivere. Vero nome Michel Dimitri Shalhoub, figlio di genitori libanesi, si era diplomato all'inglese Victoria College, poi laureato in matematica e fisica al Cairo. Il cinema e il talento per la recitazione li ha scoperti quasi per caso, nel 1953. Lo nota un giovane regista, Youssef Chahine, e per il suo "Lotta sul fiume" lo sceglie a fianco di una diva dell'epoca, Faten Hamama. Il successo personale prelude a un doppio grande amore: quello per Faten, che lo sposerà due anni dopo, e quello per il cinema. Per ottenere il consenso dei genitori della sposa si converte all'Islam e sceglie il nome che lo accompagnerà per la vita, Omar El Sharif. Così si presenta a David Lean che sta facendo i provini per "Lawrence d'Arabia" nel 1961: parla l'inglese e il francese senza imbarazzo, si comporta come un occidentale, ma ha negli occhi il furore del Mediterraneo. Lean gli affida il ruolo dello Sceriffo Alì, tra Peter O'Toole, Anthony Quinn. Sharif non ha grande considerazione del suo partner («O'Toole è la cosa più simile a una bistecca che abbia mai incontrato»), il suo ruolo sarebbe da comprimario, ma lo plasma fino a farne l'autentico eroe senza macchia dell'intera epopea. La nomination all'Oscar del ‘63 è la naturale conseguenza e gli apre le porte di Hollywood. Arriva in Italia con il suo fascino esotico per grandi classici come "La caduta dell'impero romano", "Marco Polo" e un "Gengis Khan", poi Lean lo traveste da russo per l'adattamento del "Dottor Zivago" (1965).
Il successo è planetario, accompagnato da un Golden Globe che a sorpresa non va di pari passo con la candidatura all'Oscar. Invece Omar Sharif sceglie il piacere della vita: torna in Europa per "C'era una volta" di Francesco Rosi, veste i panni di un ufficiale tedesco per "La notte dei generali" di Anatole Litvak (ancora in coppia con O'Toole, ma stavolta l'eroe è Sharif), canta con Barbra Streisand in "Funny Girl" e si innamora istantaneamente della diva americana. Poi si inventa Arciduca asburgico per "La tragedia di Mayerling", veste i panni del "Che", dilapida i guadagni e la fama finendo nel calderone dei western all'italiana ("L'oro dei McKenna"), va in Francia ("Diritto d'amare"), ritrova la Streisand in "Funny Lady" (1975). Sono passati poco più di dieci anni dal primo successo internazionale e Omar Sharif ha già visto tutto del cinema mondiale. Intanto ha imparato l'italiano, parla il greco e il turco, ha pubblicato il suo primo manuale di bridge ed è entrato nella lista dei "top players" del gioco. «Finisci a fare una vita - racconta nella sua autobiografia - in totale solitudine: alberghi, valigie, cene senza nessuno che ti metta in discussione. L'attrazione del tavolo verde per me diventò irresistibile. E ci ho sperperato delle fortune. A un certo momento ho capito e ho deciso di smettere anche con il bridge per non sentirmi prigioniero delle mie passioni».
«Facevo film per pagare debiti - ricorda ancora - e alla fine mi sono stufato». Dovrà aspettare l'incontro con il francese Francois Dupeyron, per ritrovarsi. Il film è "Monsieur Ibrahim e i fiori del corano" che emoziona il pubblico e la giuria alla Mostra di Venezia nel 2003 dove Omar Sharif riceve il Leone d'oro alla carriera e ritrova anche le sue origini mediorientali con l'interpretazione dell'anziano commerciante sufi che scopre la sua vocazione paterna nell'incontro con il giovane ebreo Momo Schmidt. Tra le sue ultime apparizioni, un cameo muto nei panni di se stesso nel film di Valeria Bruni Tedeschi nel film "Un castello in Italia".