Chi negli ultimi anni ha studiato o seguito il cinema giapponese, non ha potuto fare a meno di imbattersi nella figura di Takashi Miike, uno dei più incredibili e visionari talenti dell'attuale scena cinematografica asiatica. Nato nel 1960 e autore di un corpo d'opere che fra film per il mercato home video, lungometraggi per il cinema e serie tv vanta già un'ottantina di titoli. Basterebbe il congruo numero di opere realizzate in un lasso di tempo tutto sommato relativamente breve (il suo primo lavoro, "Eyecat Junction", è del 1991) per farci capire che ci troviamo di fronte ad un regista fuori dall'ordinario; ma sarebbe comunque alquanto riduttivo limitare il suo lavoro ad una semplice affermazione da guinness dei primati. Il suo cinema è un magma in cui attraverso la lente di un umorismo sovente molto nero si indaga sulla società giapponese (prediligendone spesso le componenti ai margini della legge), di cui spesso mostra la violenza e una spiccata propensione verso rapporti interpersonali malati (la sessualità nel suo cinema è molte volte veicolo di dinamiche violente e prevaricatrici). Amato dai suoi fans più accalorati per i film ambientati nel mondo della
yakuza, Miike Takashi si è negli anni dimostrato un regista poliedrico che ha saputo, prendendo spesso spunto per le sue sceneggiature dalla produzione manga, abbracciare generi e tematiche disparate (pur se quest'ultime coerenti fra di loro), dimostrando di saper spaziare dal gangster movies all'horror (un titolo su tutti, "
Audition"), dal film in costume (da "Sabu" all'annuciato "Takeru") ad opere intimiste e di essere in grado di misurarsi con la tradizione cinematografica antecedente (ha firmato diversi
remakes nel corso della sua carriera). Non ha neanche avuto paura di tentare col musical ("The Happiness of Katakuris"), col teen-drama ("Andromedia", comunque uno dei suoi lavori meno apprezzati) o col cinema indirizzato ai più giovani (l'immaginifico "The Great Yokai War", giustamente sottostimato dai più miopi; lo scombiccherato "
Zebraman", suo particolare contributo al cinema dei supereroi o degli aspiranti tali, e appunto il più recente "Yattâman"). Inoltre Miike ha saputo con gli anni conquistarsi una fetta di pubblico sempre più vasto e in patria alcuni suoi film sono stati dei veri successi (si pensi a "The Call" nel quale si misurava coi topoi del J-horror o alla trasposizione, con tanto di sequel, del manga "
Crows Zero").
Grande successo ha avuto anche "Yattâman", versione live fiction di una serie a cartoni animati degli anni 70 prodotta dalla Tatsunoku, nata (come del resto altre) sulla falsariga della precedente "Time Bokan" (queste serie sono state trasmesse anche in Italia). A differenza di quanto era capitato col "Casshern" di Kazuaki Kiriya o col poco amato "Devilman" di Hiroyuki Nasu, Miike non intende stravolgere o tradire il materiale originario, anzi il suo intento è proprio l'opposto. Ambientato in un presente convenientemente iperrealista (lo scenografo Yuji Hayashida contribuisce non poco alla riuscita dell'impresa), il film ci mostra il duo (per tacere di un robottino volante a forma di dado) composto da un inventore di giocattoli e dalla di lui fidanzata/assistente (nell'edizione italiana i due erano diventati fratello e sorella, forse per timore di "sconvolgere" il pubblico infantile...) che, a cadenza settimanale sfidano e sconfiggono (regolarmente e, sia detto, senza grandissima difficoltà) la pericolosa (insomma!) e crudele banda Doronbo, composta dalla seducente (questo sì!) Miss Doronjo e dai suoi due tirapiedi Tonzra e Boyacki. Nelle loro battaglie gli Yattaman sono aiutati da una serie di robot giganti a forma di animali che sfidano in singolare tenzone i corrispettivi robot nemici. Il film riprende dalla serie tv oltre ai personaggi e alle situazioni più classiche (il look dei personaggi, i numeri musicali dei cattivi, i loro improbabili tentativi di truffa, le fasi dei combattimenti, le manifestazioni di festa degli eroi) il leit-motiv principale (ad onor del vero poco più che un MacGuffin): la ricerca della pietra a forma di teschio del quale il criminale Dokurobei incarica i tre Doronbo. A questo la sceneggiatura aggiunge (forse in omaggio alla natura autoconclusiva degli episodi della serie oppure semplicemente per rendere il plot più corposo) una sottotrama che vede gli eroi aiutare una giovane a ritrovare il papà scienziato, scomparso misteriosamente proprio mentre era alla ricerca della suddetta pietra. L'impressione è quella di vedere un episodio (lungo) del cartone con attori in carne ed ossa ed effetti CGI (peraltro molto ben fatti!).
Se Sho Sakurai della pop band Arashi (che qui cantano il brano sui titoli di coda Alive) e Saki Fukuda sono funzionali nei panni degli yattamen, la sceneggiatura non si può dire che offra loro vere occasioni per brillare (considerazione questa che può essere fatta anche per la modella Anri Okamoto nei panni della ragazza aiutata dai nostri). In compenso (come del resto succedeva nei cartoon e in quasi tutto il cinema di genere!) i cattivi finiscono con essere il vero fulcro della pellicola: Kendô Kobayashi e Katsuhisa Namase sono perfetti nei panni di Tonzra e Boyacki (specie il secondo, il cui personaggio è del resto più importante) e Kyoko Fukada domina la scena grazie alla sua Doronjo. Inguainata in un costume di latice che lascia poco spazio all'immaginazione, l'attrice di "Kamikaze Girls" è forse la presenza più conturbante che il cinema fantastico ci ha offerto dai tempi della Michelle Pfeiffer di "Batman - Il Ritorno". Giocando come da programma la carta del sex appeal (la vocina sexy da donna-bambina non fa che aumentare l'effetto già di per sé garantito dal look provocante), Doronjo è la calamita che attira gli interessi erotici degli altri personaggi: Boyacki e Dokurobei sono dichiaratamente soggiogati dal suo fascino e persino il protagonista ne viene tentato, mettendo a rischio il rapporto con la fidanzata (interessante come la sceneggiatura abbia trasformato in uno degli elementi portanti del film quello che nel cartone era giusto accennato); paradossalmente Doronjo non riesce a conquistare fino in fondo proprio il cuore dell'unica sua conquista cui avrebbe tenuto veramente. Un doppio smacco il suo, verrebbe da dire, ma la sconfitta del personaggio non diventa anche quella della sua attrice che invece esce dal film come la vera vincitrice (poco importa se la sua uscita di scena, pure quella mutuata dall'ultimo episodio televisivo, è all'insegna di un'affettuosa ironia). Fa quindi piacere che molti recensori abbiano segnalato, oltre all'avvenenza dell'attrice, anche lo spessore che ha saputo dare al ruolo; Doronjo potrà anche sembrare un ruolo leggero ma non lo è la performance di Kyôko Fukada (e, per quanto contano certe iniziative, sarebbe bello che le associazioni di critici e addetti ai lavori giapponesi a fine anno si ricordino di lei, troppo spesso questi ruoli finiscono per essere trascurati in nome di un frainteso senso del valore o del merito).
Come già detto "Yattâman" omaggia affettuosamente (e filologicamente) la serie tv (due dei doppiatori originali dei Doronbo appaiono in un cameo) ma Miike con questo film ha anche realizzato un'opera profondamente averyana nei colori, nel ritmo, nel delirio di certe situazioni e nel disegno dei personaggi. Probabilmente non ci troviamo di fronte al suo capolavoro (non ha l'originalità e la forza di suoi lavori precedenti, anche se un film del genere da parte sua, nonostante il suo avvicinamento ad un cinema più mainstream, può ancora essere considerata una mossa spiazzante) ma di certo è una delle sue opere più divertenti e amabili.