Se le tecniche di animazione delle grandi case di produzione hollywoodiane sono alla ricerca di un crescente realismo e di una sempre maggiore tridimensionalità dell’immagine, c’è anche chi preferisce navigare in direzione contraria, convinto che l’animazione disegnata a mano conservi alcuni fondamentali aspetti del linguaggio artistico che finiscono per smarrirsi quando subentra un’eccessiva ricerca della verosimiglianza.
"Wolfwalkers" però, così come i due precedenti lavori di Moore, non guarda soltanto al passato del cinema d’animazione, riscoprendo così tutte le potenzialità di carta e matita, ma anche al passato della propria terra: l’Irlanda, che nelle opere del regista di Newry rivisita la sua storia, le sue leggende e le sue tradizioni.
Dopo averci raccontato le vicende del libro di Kells, antico codice medievale miniato dai seguaci di San Patrizio; dopo averci condotti nei mari del Nord per farci ascoltare il canto magico delle Selkie, il cinema di Moore ci trasporta ora nelle foreste vergini dove abitano i wolfwalkers, versione locale dei più noti licantropi, ma privi qui di ogni elemento orrorifico.
La storia narra l’avventura di Robyn, giovane ragazzina inglese, trasferitasi in Irlanda a seguito dell’invasione cromwelliana dell’isola. Il padre, alle dirette dipendenze del Lord Protector britannico, è un cacciatore di lupi. Robyn sogna di seguire le orme paterne e di affrontare grossi animali feroci nella foresta, ma il destino la porterà a conoscere Mebh: ragazza selvaggia e spericolata con il potere di trasformarsi proprio in uno di quegli animali minacciati dal padre. Essa saprà mostrare alla giovane protagonista l’altra faccia della storia, le violenze perpetrate dagli inglesi nei confronti delle tradizioni irlandesi e degli antichi patti stretti con gli spiriti pagani.
La storia sottende evidentemente un messaggio ecologista che non può che ricordare il miglior Miyazaki, ma, riprendendo un tema già presente in "Song of the Sea", il film ci parla soprattutto dell’importanza di scoprirsi diverso, di venire a patti con l’Altro.
Ciò che convince è, in particolare, la capacità dell’opera di calare queste tematiche universali in una cornice storica ben precisa: quella dell’Irlanda del XVII secolo, dominata dagli inglesi di Cromwell, le cui repressioni nei confronti della cultura locale sono un argomento ancora oggi controverso.
Il fatto che l’identità del lupo si confonda con quella di Mebh (la cui fisionomia, a partire dalla folta chioma rossa, connota una chiara appartenenza etnica) è funzionale allo svelamento del sottotesto del film: sterminando i lupi e abbattendo la foresta, gli inglesi intendevano estirpare i tratti della cultura locale che impedivano un’omologazione al governo di Londra; quegli aspetti culturali nei quali la popolazione si identificava. Come rivela lo stesso Moore: "Molte cose della cultura irlandese, su come si vedevano gli stessi irlandesi, furono sterminate sterminando i lupi"[1].
Siamo ben distanti da quella mistione tra cristianesimo e paganesimo che veniva raccontata in "The Secret of Kells" e che qui è rappresentata dal personaggio del paffuto pastore, il quale finisce alla gogna dopo aver ricordato ai concittadini il sacro patto che i pagani prima e San Patrizio poi avevano raggiunto con gli spiriti del bosco; qui invece i ragazzini di strada si fanno beffe della bandiera inglese, che diventa simbolo di repressione e di violenza; una violenza che cerca la sua giustificazione nelle invocazioni al cielo del Lord Protector, ma che nasconde profonde ingiustizie culturali.
Non mancano poi i rimandi agli altri film del regista e alla simbologia. Anche qui come nel primo lungometraggio di Moore, si ricorre alla contrapposizione tra il cerchio e il quadrato, che diventa contrapposizione tra selvaggio e domestico, tra wild e tame, e, più nel profondo, la contrapposizione tra valori naturalistici da un lato e valori materialistici-repressivi dall’altro. Non a caso la tana dei lupi e la folta chioma della madre di Mebh assumono forme circolari, mentre la planimetria del villaggio inglese è marcatamente rettangolare.
Nella composizione delle immagini invece, la ricchezza di particolari e le texture dei primi film, lascia il posto a tratti più graffiati, a linee più marcate e a colori più definiti che donano alle inquadrature un carattere vagamente impressionista. In particolare, quando una specifica emozione prende il sopravvento, gli ambienti in secondo piano scompaiono per lasciare il posto a veri e propri quadri astratti che aiutano lo spettatore a immedesimarsi nello stato d’animo del protagonista della scena, sia esso la rabbia, la paura, la felicità o altro, adattando colori, tratti e fantasie alla particolare situazione descritta.
Così, in una scena particolarmente cruenta avremo delle aggressive pennellate rosse, che possono richiamare il sangue e la violenza; con la paura saranno i colori freddi a prevalere; mentre per comunicare la gioia e la contentezza le linee si faranno meno aggressive e più sinuose e i colori più tiepidi.
Per il resto Moore continua a giocare con il senso di profondità, con l’assenza di tridimensionalità e di proporzioni, sacrificando la verosimiglianza alla funzionalità, asservendo totalmente le immagini al loro significato narrativo, emotivo o simbolico e utilizzando tecniche di animazione diverse a seconda di ciò che la vicenda in quel momento richiede.
Tutte queste caratteristiche contribuiscono a donare al film un carattere di artigianalità che, senza nulla togliere a Pixar & Co., difficilmente può essere raggiunto tramite l’animazione digitale. Le opere di Moore trasmettono allo spettatore un senso di autenticità, di cura verso ogni singolo tratto; dalla matita di Moore (e dei suoi collaboratori) emerge tutta la creatività, la cura estetica, l’amore verso questo tipo di cinema, tradizionalmente appannaggio dei più piccoli, ma capace di parlare al cuore di tutti noi.
regia:
Ross Stewart, Tomm Moore
titolo originale:
Wolfwalkers
distribuzione:
Apple TV+
durata:
103'
produzione:
Cartoon Saloon, Dentsu Entertainment USA
sceneggiatura:
Will Collins
montaggio:
Tomm Moore, Ross Stewart
musiche:
Bruno Coulais, Kíla