In Daniel Alfredson, cineasta svedese che ha acquisito una discreta notorietà in patria per aver diretto gli adattamenti degli ultimi due episodi della Trilogia Millennium scritta da Stieg Larsson, i temi della proliferazione del male e della caccia all'uomo risultano essere inevitabili. Anche "Blackway" (distribuito nelle sale italiane con "Go With Me", titolo del romanzo di Castle Freeman Jr. da cui la pellicola è tratta), mantiene tutti i crismi e gli stilemi delle sue opere precedenti. Si tratta di un thriller dalle atmosfere plumbee, primo lavoro commissionato al regista da una produzione americana, la Enderby Entertainment.
Lillian è una ragazza che dopo aver vissuto per molto tempo a Seattle, torna nella sua città natale (una fosca e imprecisata zona montuosa al confine tra Stati Uniti e Canada) in seguito alla morte di sua madre. Blackway è invece un ex poliziotto, diventato un potente criminale che tiene in mano il mercato della droga e mette costantemente in atto insane azioni di violenza così incontrollate e mortifere da intimorire anche le autorità del posto, che ne rifuggono dal terrore. Quando una sera Lilian cade vittima dell'ennesima persecuzione a opera di Blackway, la donna decide che è arrivato il momento di farsi giustizia privata. Trovato l'appoggio di un anziano taglialegna dal passato quantomeno tormentato, affiancato dal suo giovane assistente, i tre si incamminano alla ricerca del mefistofelico criminale...
Difficile commentare questa piccola, ridicola sciagura. Come è difficile riuscire a immaginare che una sceneggiatura possa essere così povera e asettica, non solo di idee quanto di contenuti concreti. Forse bastavano una decina di pagine e di altrettanti minuti per raccontare un thriller di questo tipo, che per riempitivo racchiude gran parte della vasta e pleonastica collezione di stereotipi cinematografici.
In una narrazione che presto si auto annienta (non per una scelta registica di sottrazione quanto semplicemente per evidenti limiti di scrittura), l'ambiente esterno risulta essere l'unico fattore predominante, ancor più di qualsiasi altro personaggio inquadrato dalla macchina da presa, protagonisti inclusi. I dialoghi vacui e per nulla funzionali al genere di riferimento (a tratti involontariamente comici) evidenziano infatti una totale assenza di enfasi e introspezione, anche a causa di una recitazione goffa e pacchiana (incluso Hopkins, qua anche nelle vesti di produttore) al netto del villain di turno, un discreto Ray Liotta, unico interprete degno di interesse, puntualmente oscurato da un plot ignobile.
Inutile continuare a soffermarsi sui particolari. Quello che sarebbe dovuto essere un western di frontiera ambientato nella gelida provincia (leggi Carpenter), innescato da una lotta manichea tra bene e male improntata sulla violenza (leggi Peckinpah), si rivela uno scherzo che non raccoglie neanche la commiserazione della sua totale inadeguatezza tecnica e intellettuale. Perché rappresenta meschinamente l'ennesimo scarto di genere che cerca con costanza di raggirare lo spettatore. Un lavoro amorfo, incompiuto, privo del benché minimo elemento che possa essere ricondotto alla materia cinematografica. Coraggiosa a dir poco la scelta di presentarlo fuori concorso alla 72a Mostra del Cinema di Venezia.
cast:
Anthony Hopkins, Julia Stiles, Ray Liotta, Alexander Ludwig
regia:
Daniel Alfredson
titolo originale:
Blackway
distribuzione:
Microcinema
durata:
90'
produzione:
Enderby Entertainment, Gotham Group
sceneggiatura:
Joe Gangemi, Gregory Jacobs
fotografia:
Rasmus Videbaek
scenografie:
James Hazell
montaggio:
Håkan Karlsson
musiche:
Klas Wahl, Anders Niska