non le erbacce"
La frase in esergo, proferita dal cineasta statunitense al termine del capitolo italiano di "Where To Invade Next" (e quindi a pochi minuti dall'inizio), si potrebbe tranquillamente definire il manifesto programmatico dell'intero film, se non una vera e propria dichiarazione di poetica, e avrebbe potuto così porre fine a quasi ogni discussione riguardo alla legittimità dell'utilizzo che Moore fa della forma-documentario. Dico "avrebbe potuto" perché ovviamente così non è stato e, ancora una volta, pubblico e critica si sono divisi fra sostenitori e detrattori delle motivazioni e delle scelte registiche del "documentarista" di Flint. Ma l'unica questione legittima al riguardo, perlomeno per il sottoscritto, è se valga la pena sprecare parole e fiumi di inchiostro (digitale) riguardo ad un cinema coerente e (prevalentemente) immutabile come pochi.
Infatti l'ottavo lungometraggio cinematografico di Michael Moore conferma (come se ce ne fosse stato bisogno) i tratti principali di questa produzione cinematografica così discussa e contestata, ma anche lodata (soprattutto in passato). L'approccio di Moore fin dagli esordi di "Roger & Me", indipendentemente che parli delle stragi nei campus statunitensi o delle origini della crisi del 2008, si concretizza difatti in un punto di vista fortemente pregiudiziale e focalizzato solamente sul particolare al quale guarda, servendosi di sequenze girate
ad hoc e che si fondano sul protagonismo di Moore e di materiale di repertorio debitamente reso prono alle tesi che deve supportare. Quindi è evidente che la trasferta europea del regista di Flint mette in scena una visione quanto mai stereotipata (caricaturale più che propagandistica, tuttavia) delle nazioni visitate, dall'Italia patria delle ferie pagate, del sesso a tutte le ore e della solidarietà all'Islanda simbolo di saldezza nordica e popolata da
ginearche valchirie vichinghe.
Pertanto si può concludere che per gli
habitué del cinema di Moore non vi sia alcuna novità in quest'opera. E invece non è così. Infatti se vi è stata un'evoluzione in più di 25 anni nella produzione del regista del Michigan essa è da rintracciare nella progressiva perdita della
verve virulenta che i film del cineasta esibivano con risultati alterni e l'adozione sempre maggiore di elementi comici. Certamente Michael Moore non ha mai fatto a meno dell'ironia e ancor più del sarcasmo ma mai come in quest'opera si è ricorso alla comicità "pura", confermando così una tendenza emersa già a partire da "
Sicko". E se da questo punto di vista "Where To Invade Next" può dirsi sostanzialmente riuscito, essendo capace di far sorridere (a volte in maniera paradossalmente un po' involontaria) lo spettatore in più occasioni, sul versante documentaristico non vi è nulla che meriti aggiunte rispetto a ciò che si è già ricordato. Si smetta solo di criticare Moore per i suoi documentari ricchi di elementi di
fiction, dato che il "cinema del reale" si fonda sulla manipolazione dai primordi (si pensi a certa produzione di Meliès) e che anzi ha spesso raggiunto le sue vette proprio grazie ad essa (citare
Werner Herzog e
Robert Flaherty è scontato).
Una più seria critica al cinema di Moore si potrebbe semmai rivolgere all'utilizzo continuamente manipolatorio del pubblico che il regista USA fa degli elementi, di
fiction e non, coi quali costruisce le sue opere, abusando di scene madri e musiche enfatiche. Non fa eccezione "Where To Invade Next" che tra testimonianze sulla Shoah e cosa essa rappresenti per i tedeschi odierni e il perdono in diretta da parte del padre di uno dei giovani massacrati ad Utoya scivola più volte in un non necessario melodrammatico. Ma d'altronde, come già ripetuto, questo è il cinema di Michael Moore, di cui questa pellicola rappresenta in un certo senso il terminale per come rivela definitivamente, complice l'assenza di un bersaglio ben preciso e la perdita di molta della salacia mostrata in passato, la natura deteriormente
americana di tutto il suo cinema. Un cinema che in effetti non ha mai nascosto la propria natura enfatica, arrogantemente autoreferenziale e soprattutto aproblematica, interessato solamente alla natura contingente ed apparente dei problemi che tratta e a soluzioni a breve termine. Non è un caso che il leitmotiv del film sia che la maggior parte delle buone idee applicate in Europa proviene da Oltreoceano e che nel finale il regista di Flint sottolinei ciò (con tanto di citazione da "Il mago di Oz"). Infatti è lontano dalla sua patria e nel suo documentario più scopertamente e apparentemente antiamericano che Moore si scopre patriota. E che il suo cinema si dimostra definitivamente soggetto alla medesima retorica che ha così spesso, forse fintamente, sostenuto di combattere.