If you prick us, do we not bleed?
If you tickle us, do we not laugh?
If you poison us, do we not die?
Dietro l'insostenibile leggerezza di un sorriso e di un sospiro di malinconia, i film di Lubitsch ci rivelano sempre le fragilità della vita e la complessità dell'amore. Il suo indefinibile tocco - questione di stile, ironia, eleganza, inquadrature, riferimenti sessuali, malinconia celata dietro i momenti più divertenti, e altro ancora - innesca quel brillante cortocircuito vita-finzione che porta spesso i suoi personaggi a fingere per sopravvivere e continuare ad amare. Ci conforta, ci fa sorridere, e ci ricorda quanto crudele possa essere la vita; ci fa sognare e ci ricorda quanto ingannevole, ma irrinunciabile, sia l'amore.
Nei film di Lubitsch, teatro e dissimulazione hanno sempre un grande peso. Possono avere un'impostazione teatrale, oppure essere presi in prestito dal palcoscenico ("Trouble in Paradise", "The Shop Around the Corner", "Design for Living"). I suoi personaggi spesso fingono di essere qualcos'altro, ingannano e si ingannano, soprattutto per amore, per amore della vita, o per ingannare la morte. E "To Be or Not To Be" enfatizza fin dal titolo il rapporto tra tragedia nella finzione, nella vita e nella Storia, dove "i nazisti hanno messo in piedi una commedia ancora più grande, e non c'è la censura a fermarli". Sarà il teatro (saranno Lubitsch e il suo cinema) a condannare e deridere i nazisti tre anni prima della fine della guerra, con il suo mestiere e i suoi inganni, quelli subiti, consapevolmente o meno, dal pubblico e dai personaggi; con i suoi trucchi e travestimenti, che tanto cari saranno all'allievo Billy Wilder; con l'ingegno d'artista, qualche costume e una barba finta.
La comicità per definizione scardina le regole e rovescia l’ordine, mostra il risvolto ridicolo di una situazione, si prende gioco delle istituzioni. Quale bersaglio migliore del nazismo, allora, quale irriverenza più grande poteva essere congegnata all’epoca? Solo il cinema poteva vincere sull'insensatezza del crimine, e forse solo un film americano diretto da un regista tedesco emigrato vent'anni prima poteva farlo in questo modo. Mentre l'Europa si frantuma sotto il peso della guerra, di là del mare la si ricostruisce negli studi dove prendono corpo sogni e fantasmi di altri europei: Renoir, Zinnemann, Wyler,
Lang e
Hitchcock, che in quegli anni girano storie ambientate nel loro continente d'origine. E poi c'è
Chaplin, che l'anno prima gira "Il grande dittatore", opera diversa da "Vogliamo vivere", eppure accostabile per quell'ambiguità di un Hitler mascherato, sdoppiato, che nella Varsavia del film di Lubitsch si aggira per la città suscitando la curiosità dei cittadini e degli spettatori. Ma poco dopo tutto sarà chiaro: questo è un film sull'arte del travestimento e della farsa.
Joseph e Maria Tura sono marito e moglie, primi attori di una compagnia che sta per mettere in scena una commedia sul nazismo, osteggiata però dalla censura. Per quieto vivere reciteranno il classico "Amleto", e, con l'invasione nazista, il monologo più famoso della storia diventerà messaggio in codice: codice d'amore per Sobinksi, l'aviatore innamorato di Maria, e codice ritenuto segreto dai nazisti. Ma soprattutto l'essere-o-non-essere esaspera il concetto di finzione e identità: essere o non essere moglie adultera, marito tradito, spia, vero colonnello della Gestapo; credere e non credere; stare o non stare dalla parte giusta.
Non sminuisce la tragedia, Lubitsch, ma condanna la violenza denudando la follia del nazismo. Suscita una risata non sempre liberatoria, ma spesso tesa a suscitare un senso, se non di colpa, di imbarazzo. Come quando Joseph Tura, tanto geloso quanto vanitoso, fraintende le parole di chi lo circonda mentre si parla della vergogna dell'invasione nazista, e crede ci si riferisca allo spettatore che si è alzato durante il suo monologo. Jack Benny, che Lubitsch ebbe in mente fin da subito, è adorabile e straordinario: esilarante quando esce sul palco in calzamaglia o quando cerca, anche travestito, di verificare se il suo nome è noto all'interlocutore, per rimanere puntualmente deluso. Apice del disappunto è una delle battute più incriminate del film, che amici e colleghi chiesero di eliminare ritenendola troppo offensiva, pronunciata dal colonnello della Gestapo: "Oh, yes, [...] I saw him (Tura, ndA) on stage when I was in Warsaw. What he did to Shakespeare we are doing now to Poland". Ma Lubitsch, consumato, attento e geniale alchimista di parole e tempi comici, ebbe il coraggio e la lungimiranza di lasciarla.
Il sesso, che spesso muove i personaggi del "regista delle porte", si mette di mezzo anche qui: Maria Tura è un altro personaggio desiderato da due (o più) pretendenti del repertorio lubitschiano. La brama di stare con lei muove Sobinski e scatena la gelosia di Joseph, compromette il professor Siletsky e il colonnello Ehrhardt in quel finale dove la comparsa del finto Hitler è ulteriore beffa e invenzione comica straordinaria. Tragicamente, questa fu l'ultima interpretazione di Carole Lambard, che morì in un incidente poco dopo le riprese.
L'arte antica della maschera e del travestimento sconfigge e ridicolizza il nazismo. Gli attori, recitando e fingendo fuori dal palcoscenico, ottengono la loro grande vittoria e la più grande ribalta, mentre il regista della compagnia dirige e congegna le operazioni, motivando gli attori in una metafora che accosta il cinema alla vita.
Il grande merito di aver creato un capolavoro immortale come questo, basato su un sottile equilibrio tra tragedia e commedia, va condiviso almeno con Melchior Lengyel ed Edwin Justus Mayer, autori di soggetto e sceneggiatura, di una raffinata impalcatura dove battute e situazioni si ripetono e si rincorrono, si ereditano di personaggio in personaggio, mutando, accrescendo o sconvolgendo il loro significato. Oltre all'insistenza di Tura e al monologo shakespeariano, ci sono quel "So they call me Concentration Camp Ehrhardt", e soprattutto il momento della ribalta di Greenberg/Felix Bressart (volto noto agli amanti del cinema di Lubitsch) con il monologo di Shylock da "Il mercante di Venezia", recitato in faccia ai nazisti. Momento che, secondo Guido Fink (monografia del Castoro), sarebbe finalmente modello positivo di recita, apice e catarsi del film se non dell'intero cinema di Lubitsch, perché tutte le vere vittime del nazismo starebbero gridando in faccia a Hitler le parole di Shakespeare. O più semplicemente, l'arte ha la meglio sulla follia, il bello sconfigge il disumano.
Il cortocircuito tra menzogna e finzione lega tra loro tutti i personaggi, il narratore e lo spettatore. Inizialmente il pubblico viene ingannato dal finto Hitler, e da qui in poi sarà quasi sempre consapevole dei trucchi e degli inganni, tranne in quei casi dove richiesto dalla suprema legge della suspense. Il valzer include gli incontri furtivi di Maria e Sobinski, il doppio gioco di Siletsky (riconosciuto da Sobinski grazie al suo amore per il teatro e per Maria), le smancerie di Maria con Siletsky, innamorata di Joseph, ma allo stesso tempo attratta dal giovane aviatore, i travestimenti di Joseph Tura, e infine, in un teatro non a caso, la personificazione di Hitler stesso ai danni dei nazisti.
"Vogliamo vivere" è uno di quei film che nasconde in soffitta una copia che invecchia al suo posto, congegnato in modo tanto brillante da divertire e sorprendere per la sua freschezza anche dopo ripetute visioni. Lubitsch incastra perfettamente ritmi e tempi, mischia tragedia e farsa, immerge nella malinconia i momenti comici consegnando una lezione di commedia irripetibile. Film coraggioso, sincero omaggio all'arte del narrare e del dissimulare, riflessione sul cinema e sulla recitazione, e soprattutto coraggiosa e sfacciata accusa ai totalitarismi e alla guerra, schiacciati sotto il peso della satira e della farsa - qui davvero sepolti da una risata. Inno all'amore, alla vita e all'arte come modello positivo di intrattenimento e finzione, arma di libertà capace di vincere sul sopruso e sulla violenza.
20/07/2013