Se l’amore è un sentimento universale, parametro indispensabile per misurare il livello di felicità e di benessere presente nelle nostre vite, la sua trattazione non sembra impressionare più di tanto l’immaginario del cinema contemporaneo, a differenza di televisione e piattaforme, poco interessate ad approfondirne la conoscenza. Le ricadute commerciali parlano chiaro: a fronte del primato di "Better - Dannazione", best seller di Carrie Leighton incentrato su una tormentata e dolorosa love story, ci sono film sul medesimo argomento destinati ad accontentarsi del plauso della critica senza però riuscire a creare un vero e proprio seguito. Valga per tutti l’esempio di Paul Thomas Anderson, cineasta capace di mettere d’accordo pubblico e critica eppure anche lui uscito con le ossa rotte quando si è trattato di sfidare le convenzioni del genere con un film, "Ubriaco d’amore" (da cui Mouret sembra voler riprendere i motivi della locandina), rivalutato solo in seguito e sulle prime considerato un’opera minore del regista americano.
Tra le ragioni di tanta disaffezione potrebbe esserci quella legata al primato della questione sociale su quella sentimentale e, dunque, a una forma di autocensura da parte dello spettatore, poco propenso a legare la propria immagine a un argomento ritenuto frivolo e disimpegnato. Emozione e commozione suscitate dalle ragioni del cuore diventano dunque qualcosa da nascondere, da consumarsi in privato e lontano dal giudizio altrui. Un po' come fanno Charlotte e Simon, protagonisti di "Una relazione passeggera", il nuovo film di un regista, Emmanuel Mouret, imperterrito nel continuare ad arricchire i frammenti del suo discorso amoroso.
Certo è che rispetto alla maggior parte delle commedie sentimentali il film di Mouret evita la stucchevole abitudine di trasformare le peripezie amorose dei protagonisti in una sorta di tragedia greca, ovvero di accompagnare le vicissitudini degli amanti con un coro di personaggi pronti a parteggiare per l'uno e per l’altro o, ancora di più, a dispensare giudizi sulla vicenda in corso, suggerendo al pubblico la "morale della favola". Mouret preferisce adottare un atteggiamento malinconico ma leggero, quasi divertito, in netto contrasto con l’audacia dei personaggi, i quali, lungi dal sentirsi tali, ma consapevoli di essere figli di un Paese capace di destituire il Potere inventandosene un altro, sono disposti a spingersi oltre i limiti del perbenismo, coscienti della caducità delle cose umane. Convinto da par suo che l’amore sfugga a qualsiasi convenzione o tentativo di irreggimentazione (il flusso di parole altro non è che il tentativo della ragione di imbrigliare il caos amoroso) l’autore francese si concentra esclusivamente sui due protagonisti, mettendo in scena la vita segreta, quella che i nostri decidono di concedersi all’interno di una relazione che per Simon (il sempre più bravo Vincent Macaigne), sposato con figli, è il massimo della trasgressione mentre per Charlotte (Sandrine Kiberlain), madre single, fiera della propria indipendenza, è la conseguenza di una libertà che si mantiene lontana dalla possessività dei rapporti umani.
Inseriti in maniera realistica all’interno della singole scene, i protagonisti del film riproducono la dimensione totalizzante dell’incontro amoroso attraverso una messinscena che favorisce la scoperta reciproca, separando Simon e Charlotte dal resto del mondo. Introdotta dalle didascalie indicanti il giorno e il mese degli incontri e suddivisa in una serie di quadri autonomi l'uno dall’altro (una discontinuità utile a sottolineare la precarietà del discorso amoroso ma anche la sorpresa di un ritrovarsi per nulla scontato), la relazione passeggera individua uno spazio esclusivo, nel quale la conoscenza e l’intimità con l’altro non prevedono altre intromissioni (in "Trompierie - Inganno" succedeva l'esatto contrario). In questo senso, esemplare, è la scena iniziale all’interno del pub, in cui la fatica di riuscire a parlarsi superando il rumore circostante fa il paio con la difficoltà della macchina da presa di restare sui personaggi, fagocitati dalla calca che li circonda. Non è un caso che da lì in poi la caratteristica della messa in scena faccia registrare una rarefazione dell’elemento umano, quando presente - come succede in uno dei passaggi più riusciti, quello in cui Charlotte confida a Simon di essere stata abbordata da un ragazzo più giovane di lei - è ridotto a pura funzione, utile a far scattare il meccanismo del divertimento. Le eccezioni sono sempre disturbanti, come succede quando l’amico chiede a Simon di poter spiare i suoi amplessi: destabilizzanti, nel momento in cui i protagonisti, desiderosi di sperimentare un ménage a trois, iniziano ad avere una relazione con una terza persona. La presenza dell’altro è deleteria anche in maniera indiretta, attraverso le parole del collega di Simon che mette in dubbio la premesse della loro relazione. Mouret non manca di farcelo notare con una leggera carrellata in avanti sul volto di Charlotte, turbata dai contenuti di quel discorso. D’altronde nel cinema di Mouret tutto è lieve, anche nella scelta del linguaggio cinematografico, mai brusco, né enfatico. Come succede al precipitare delle cose, segnalato da una lieve esitazione di Charlotte, accompagnata da uno scarto minimo dell’obiettivo; quanto basta per sottolineare l’importanza del momento, concentrandosi sul volto della donna.
In una direzione che fa dei personaggi il principio e la fine della propria condotta, la minima variante alla centralità degli stessi appare vieppiù significativa. Come succede nel campo lungo iniziale, in cui vediamo i protagonisti fuori dal pub mentre si recano in casa di lei. Sovrastati dall’enormità delle strutture architettoniche e ridotti a puro segno, la dimensione dei singoli personaggi è riassunta dalla soluzione formale in cui la luce rossa che colora il caseggiato costeggiato da Simon ci dice del senso di colpa misto a desiderio dell’uomo. A differenza del candore giallastro di cui si colora il palazzo in cui si trova l’appartamento di Charlotte, indicativo di un'emotività coerente e distesa. Ancora più sorprendente è la soluzione adottata per mettere in discussione gli esiti della storia e per riaprire i giochi, con la corsa dei protagonisti verso la fermata della metropolitana, cristallizzata dal fermo immagine che li vede sul punto di sparire dalla vista dello spettatore. La visione dei protagonisti in corsa nella stessa direzione sottolinea la ritrovata intesa ma soprattutto l’orizzonte di quel rapporto, con le caratteristiche di temporaneità esplicitate dal tentativo di riuscire a salire sul treno, di fare "in tempo" a salire sul vagone per diventare "passeggeri". Niente di definitivo, ma in fondo, la speranza che possa diventarlo. Presentato in anteprima alla scorsa edizione del Festival di Cannes, "Una relazione passeggera", è uno dei film migliori dell’autore francese - vicino al sublime "Cambio d’indirizzo” - anche per le ottime interpretazioni dei protagonisti, Macaigne e Kiberlain, lontani dall’essere "oggetti" del desiderio cinematografico e per questo, ancora più desiderabili.
cast:
Vincent Macaigne, Sandrine Kiberlain
regia:
Emmanuel Mouret
titolo originale:
Chronique d'une liaison passagère
distribuzione:
Movies Inspired
durata:
100'
produzione:
Moby Dick Films, Canal+, Ciné+, Indéfilms 9
sceneggiatura:
Emmanuel Mouret, Pierre Giraud
fotografia:
Laurent Desmet
scenografie:
David Faivre
montaggio:
Martial Salomon
costumi:
Bénédicte Mouret-Cherq