Cinema e tennis non vanno granché d’accordo. O almeno, vanno d’accordo quando l'opera filmica si discosta dallo sguardo sportivo per costruire uno sviluppo narrativo capace di trascendere l’armonia del gesto, la maniacalità della tecnica. Al di là di alcuni straordinari documentari che negli ultimi anni sono partiti dal tennis per compiere riflessioni più ampie, in cui lo sport incontra la fisica, classica e quantistica, e la filosofia (l’eccezionale ma sconosciuto "Subject to Review" di Theo Anthony o il più noto "John McEnroe - L'impero della perfezione" di Julien Farau), il tennis al cinema è infatti ricordato principalmente come contorno, come scenario in cui si muovono i protagonisti di vicende drammatiche (da "L’altro uomo" di Alfred Hitchcock a "Il giardino dei Finzi Contini" di Vittorio De Sica, fino a "Match Point" di Woody Allen). Non è un caso, insomma, che uno dei match di tennis più memorabili visti sul grande schermo sia quello giocato senza palline da alcuni mimi nel finale di "Blow-Up".
Solo raramente (e solo di recente) i campioni del tennis sono diventati essi stessi oggetto di narrazione cinematografica, come in "Borg McEnroe" o in "La battaglia dei sessi". E "Una famiglia vincente - King Richard" si va a collocare in quel filone, apparentemente marginale (ma che sarà ragionevolmente pronto a esplodere non appena si inizierà a ragionare su opere ispirate ai big three Federer, Nadal e Djokovic), avendo come protagonista il padre delle campionesse slam Venus e Serena Williams. Due ragazze che a partire dagli anni Duemila hanno rivoluzionato e destabilizzato il mondo del tennis femminile. Le prime due afroamericane a giungere al numero uno del mondo della classifica mondiale (prima Venus, poi Serena). Due delle giocatrici più forti che abbiano calcato i campi da tennis (Serena, probabilmente, la più forte di sempre).
Sarebbe come avere due piccoli Mozart in casa, dirà scetticamente uno dei vari allenatori contattati da papà Richard, quando si presenterà alla sua porta - come a quella di molti altri - per cercare un coach professionista per le sue ragazze, uno che accetti la sfida di allenarle gratuitamente scommettendo sul loro futuro, visto che la famiglia Williams un coach di alto livello non può chiaramente permetterselo. Uno dei tanti allenatori che dirà uno dei tanti "no" che papà Richard dovrà incassare prima di trovare qualcuno che creda davvero nelle due ragazze cresciute a Compton, California, città famigerata per la criminalità di strada e le gang giovanili, non di certo per i suoi circoli tennistici.
Un protagonista che sembrerebbe indotto e forzato, papà Richard. Ma in realtà solo chi non ha idea di cosa succeda attorno al mondo del tennis giovanile potrebbe pensare che un film del genere possa avere come protagonisti dei giovani atleti anziché i loro genitori. Quelli zelanti e metodici delle sorelle Williams o quelli arroganti delle loro avversarie, che scaricano sulle figlie ambizioni e frustrazioni personali.
Papà Richard è un progettista di campionesse. È lui che ha cresciuto Venus e Serena a suon di allenamenti sotto la pioggia, nel ghetto di Compton. È lui che arriva a dire che il loro stesso concepimento e la loro stessa nascita fa parte di un piano che aveva sempre avuto in testa, quello di dare al mondo due campionesse tra le più grandi della storia del tennis. Papà Richard è interpretato da un Will Smith che ha creduto fortemente nel progetto. Ha prodotto il film, insieme alle due sorelle Williams, che hanno così apposto il bollino di genuinità sull’operazione. E si è fatto cucire addosso un ruolo di quelli che generalmente preparano la strada per l’Award Season. Un ruolo accentratore che però finisce per mettere in ombra quello della madre, relegata in secondo piano come troppo spesso accade alle mogli di personaggi ingombranti.
Tennis e cinema non vanno granché d’accordo, ma c’è (relativamente) molto tennis giocato in "Una famiglia vincente - King Richard", un biopic per il resto decisamente convenzionale, di quelli con le immagini di repertorio prima dei titoli di coda e le scritte finali che servono a evitare allo spettatore la fatica di fare un salto su Wikipedia. Anche troppo convenzionale, se non in quei brevi momenti in cui il film prova a virare verso il road movie, approfittando dei tanti viaggi in pulmino verso il campo da allenamento o del trasferimento dei Williams in mobile home dalla California alla Florida. Il road movie, ma anche il cinema black, che fa capolino a intervalli regolari, dalle sequenze in cui papà Richard si trova a fronteggiare le gang di Compton a quella del primo tentativo di ingaggio da parte degli squali del circuito. È un biopic convenzionale, che tuttavia riesce a centrare il proprio ancorché modesto obiettivo. Senza regalare cinema memorabile, ma quantomeno regalando qualcosa di più dell’ennesimo sceneggiato tv. Buona parte del merito va ascritto, più che alla regia di Reinaldo Marcus Green, anch’essa molto convenzionale, a un montaggio sempre efficace, che sembra misurare con il calibro tempi e durate delle inquadrature e delle sequenze. Un montaggio che non può che ricorrere alla tecnica dell’highlight, durante i match, e alla ripetitività sistematica del gesto, durante gli allenamenti. Un montaggio ragionato e studiato a tavolino, del tutto antitetico a quello minimalista, impulsivo e in tempo reale delle dirette degli eventi sportivi. Un montaggio che riesce a tenere ben desta l’attenzione dello spettatore per oltre 140 minuti di biopic. E non è poca cosa.
cast:
Will Smith, Aunjanue Ellis, Saniyya Sidney, Demi Singleton, Tony Goldwyn, Jon Bernthal
regia:
Reinaldo Marcus Green
titolo originale:
King Richard
distribuzione:
Warner Bros.
durata:
144'
produzione:
Star Thrower Entertainment, Warner Bros., Westbrook Studios
sceneggiatura:
Zach Baylin
fotografia:
Robert Elswit
scenografie:
Wynn Thomas, William Arnold
montaggio:
Pamela Martin
costumi:
Sharen Davis
musiche:
Kris Bowers