Il 20 settembre 1973, circa novanta milioni di persone si sintonizzarono sui teleschermi di tutto il mondo per seguire l'attesissimo (e pubblicizzatissimo) match tra Billie Jean King, astro nascente del tennis femminile, e Bobby Riggs, ex campione ormai in declino, che sfidò provocatoriamente la collega per affermare la supremazia maschile sul campo da gioco (e non solo). Complici le rivendicazioni femministe di cui si fece portavoce la pasionaria Billie Jean e le polemiche scioviniste e carnevalesche messe in scena dallo smaliziato Bobby, la partita riuscì a porsi in sintonia con lo Zeitgeist dell'epoca, passando alla Storia come una vera e propria "Battaglia dei sessi".
Al loro terzo lungometraggio, Jonathan Dayton e Valerie Faris abbandonano le atmosfere indie dei precedenti (e riusciti) "Little Miss Sunshine" e "
Ruby Sparks" per approdare al cinema
mainstream e d'impegno civile, capace di strizzare l'occhio tanto al pubblico generalista quanto ai membri dell'Academy. Sulla scorta del recente "
Il diritto di contare", infatti, "La battaglia dei sessi" prende a pretesto un piccolo ma iconico evento del passato per investigare problemi assai pressanti e rilevanti del presente: più che di sport, si parla di femminismo, discriminazioni, diritti civili e
gender equality. Il tennis è una presenza quasi incidentale, un elemento che la sceneggiatura a firma del veterano Simon Beaufoy non ha potuto evitare di includere, ma che interessa ben poco alla coppia dietro la macchina da presa: le goliardiche partite notturne di Riggs, il rivoluzionario tour tutto al femminile organizzato da King, persino lo storico match che dà il titolo all'opera, sono messi in scena con la pigrizia del telecronista, senza alcun estro visivo né senso del ritmo.
Più che sui campi da tennis, "La battaglia dei sessi" è un film giocato nelle case, nei club e nelle innumerevoli camere d'albergo dove i protagonisti si scontrano, si confrontano, si confessano, si minacciano, si giustificano, si perdonano, si amano. Un film più parlato che agito, dunque, che purtroppo manca di nerbo e di tensione drammatica, nonostante il materiale narrativo di partenza avrebbe potuto, in altri tempi e in altre mani, fornire un solido spunto per una screwball comedy al fulmicotone.
Invece Dayton e Faris si limitano a condurre la nave in porto senza brio né divertimento apparente. E, peggio, falliscono nel tentativo di creare un ponte ideologico tra le rivendicazioni politiche espresse con audacia pionierisitica da Billie Jean negli anni 70, e quelle che scuotono ancora la società contemporanea - proprio oggi che il movimento femminista negli Stati Uniti sembra rinvigoritosi contro un Presidente che si vanta di "grab by the pussy" le donne e contro gli episodi in stile "Hollywood Babilonia" del caso Weinstein.
A poco valgono l'impegno dei protagonisti, a capo di un folto cast di ottimi nomi. Protesi dentaria e occhialoni calati sui grandi occhi blu, Emma Stone affronta la sua Billie Jean King con attenzione mimetica e piglio manierista, ma rimane incastrata in un ritratto agiografico che non le permette di esplorare fino in fondo la vasta e complessa gamma di emozioni che il personaggio avrebbe richiesto (e meritato). Più spassoso Steve Carell nei panni di un Bobby Riggs cinico e patetico al tempo stesso, sebbene non riesca davvero a salvare la sua interpretazione da certi goffi inciampi nel macchiettistico. Tra i molti, blasonati comprimari, lascia un segno la trasformista Andrea Riseborough, leggiadra come una brezza primaverile e conturbante come una visione erotica nel ruolo della prima amante lesbica della protagonista.
"La battaglia dei sessi" resta dunque un film sterilmente gradevole e garbatamente inutile, una partita giocata senza il coraggio, l'acume e la vivacità che avrebbero sicuramente giovato al risultato finale.
17/10/2017