Che la Cina fosse vicina se ne erano già accorti negli anni sessanta quando, negli slogan dei movimenti studenteschi e nei salotti degli intellettuali militanti il motto sul paese della grande muraglia faceva bella mostra nelle arringhe dei giovani contestatori. Con il senno del poi, mai affermazione si rivelò più visionaria, se è vero che oggi nessuno può fare a meno di confrontarsi con il colosso economico e sociale formatosi all'ombra del regime comunista imposto da Mao Tze tung. Neanche gli Stati Uniti, che, dopo anni di rapporti titubanti e ambigui, hanno rotto gli indugi mettendo quel paese al centro dei loro problemi con analisi di strategia comunicativa e finanziaria. Un tentativo di comprensione che il documentario di J P Sniadecki affronta da un punto di vista originale e anomalo, raccontando il fenomeno cinese attraverso le possibilità della sua rete ferroviaria, capace di spostare un numero sempre più alto di persone in ogni parte del paese. Una marcia frenetica e inarrestabile, che nel film del regista americano diventa metafora - neanche troppo nascosta - di espansione e cambiamento. A dirlo sono soprattutto i ragionamenti delle persone comuni, consapevoli, e soprattutto informati su ogni aspetto dell'agire umano. Nei vagoni del treno in corsa, i temi della politica, dell'economia e perfino della religione, con ragionamenti sulle differenze tra Islam e terrorismo, vengono filtrati e commentati dalla coscienza di un campione umano che la diversità sociale dei vari passeggeri, definità dalla tipologia degli scompartimenti, rende emblematico dell'intera comunità.
Sniadecki ci mette del suo nella rappresentatività dei tipi umani e nella capacità di cogliere lampi di verità negli aspetti più prosaici della quotidianità; come accade quando al termine di una discussione sul futuro della Cina, la telecamera sembra anticiparne la risposta in senso consumistico, mettendo in primo piano la quantità di spazzatura sparsa, e poi raccolta, nei vagoni del treno. Oppure quando, dopo averci fatto ascoltare una serie di conversazioni caratterizzate da un sano pragmatismo , il discorso si sposta su considerazioni meno materiali, con le preoccupazioni di una solitaria passeggera nei confronti di un cambiamento, che rischia di sconvolgere ecosistemi incontaminati e antichi come quello del Tibet, anche lui violato dall'avanzata del "Ministro d'acciaio". Ma non basta, perché "The Iron Ministry" è anche un racconto per immagini, con il regista che dapprima ci chiude nel ventre della balena, con il rumore delle ferriere e il vociare indistinto dei passeggeri a costituire l'anima e il corpo del mostro d'acciaio, ripreso da angolazioni improbabili, e frammentato in una serie di gesti che evidenziano la meccanicità del suo procedere. Successivamente, aprendosi al mondo circostante, con il magma umano riconsegnato alle sue normali fattezze, e la natura dell'entroterra cinese inquadrato che appare improvvisamente dai finestrini dei vagoni. Tra il "Leviathan" di Lucien Casting-Taylor e Verena Paravel e "Il passaggio della linea" di Pietro Marcello, "The Iron Ministry" è una delle sorprese piu' piacevoli di questo festival.
regia:
J. P. Sniadecki
durata:
82'
produzione:
Cincer Films
fotografia:
J P Sniadeki