Tirato in ballo dalla maggior parte delle opere del concorso ufficiale che l'hanno fatto diventare una specie di
brand in grado di legittimare il gradiente di verità dei loro contenuti, il documentario, nella sua forma più classica, arriva al festival con un'opera piena di suggestioni letterarie e che riprende nel titolo il mostro marino presente nell'Antico Testamento. Partendo infatti da quelle stesse acque che videro l'impresa della baleniera
Pequod raccontata da Herman Melville e stabilendo un'audace quanto riuscito parallelismo tra l'apparato primordiale e mitologico connesso alla figura del Leviatano e la quotidianità meccanica e cruenta di un equipaggio di pescatori, il film riesce a creare un cortocircuito sensoriale capace di trasformare una realtà prosaica e poco frequentata in una sorta di mondo parallelo dove le cose più semplici e scontate diventano le componenti di una liturgia inquietate e allo stesso tempo sublime.
Sopraffatti da un
ensemble di suoni e rumori che potrebbe appartenere a un concerto di una band heavy metal, e con il buio della notte e del mare a saturare lo schermo appena colorato da fiammelle di un pulviscolo colorato di luci psichedeliche, veniamo calati in un specie di fucina dei titani in cui tra argani e manovelle assistiamo alle conseguenze di un duello già combattuto in cui il cacciatore e la sua preda si dividono la sorte di un destino segnato in partenza. Da una parte i pesci, di ogni tipo e grandezza, battuti, torturati e infine uccisi all'interno di una camera della morte che non permette via di uscita se non agli scarti, rigettati in mare dopo la selezione delle parti più pregiate; dall'altra, l'essere umano nella sua essenza, ridotto a macchina per uccidere, infaticabile, mai stanco, dedito al suo lavoro come un religioso di fronte al crocefisso. Ci sono mani che frugano, braccia che tendono i muscoli, e poi sguardi marini che esalano l'ultimo respiro con occhi fuori dalle orbite e bocche spalancate. Ad allentare la presa giunge il volo sublime dei gabbiani e la tregua che sempre ritorna quando il buio della notte lascia il posto ai raggi di luce del primo mattino.
Girato in maniera eroica con microscopiche telecamere allacciate al corpo dei pescatori e piazzati ad arte nei vari punti della nave, "Leviathan" riesce ad andare oltre alla realtà che documenta grazie ad un occhio capace di mettere sullo stesso piano i diversi punti di vista che entrano in gioco all'interno del contesto dato. In questo modo il gabbiano che tenta disperatamente e senza successo di entrare dentro la vasca dove sono contenuti i resti inutilizzati, i pesci imprigionati nelle reti e poi liberati per essere vivisezionati, la struttura meccanica e ferrosa della nave, protagonista ed insieme testimone dei fatti, così come i pescatori che inizialmente non vengono mai ripresi a figura intera e poi, gradualmente, sono restituiti alle abituali fattezze, danno vita ad una dialettica di vita e di morte che attraverso le acque del mare riproduce magicamente le origini del mondo con il suo caos primordiale. Insomma, più che un documentario, l'opera di Castaing-Taylor e Paravel è cinema allo stato puro appena rovinato da una lunghezza eccessiva che, nell'ultima parte, perde un po' di ritmo e fa sentire allo spettatore la fatica di una visione comunque da consigliare.
10/08/2012