Il romanzo da cui il film è tratto parte da una storia vera: nel 1947 il caso Black Dahlia, il brutale assassinio di una starlet hollywoodiana, tanto orrendo da indurre le autorità a non divulgarne le immagini, sconvolge gli Usa; il primo omicidio della storia a essere gestito dai media rimane a tutt'oggi irrisolto. L'opera di Ellroy, che intorno a quel delitto ricama una vicenda fittizia, è complessa e stratificata, nel libro convivendo molte linee narrative ben distinte che (Chandler docet) si incrociano con opportuna puntualità: la storia dell'incontro e dell'amicizia tra Lee e Bucky (un lungo preambolo che ci conduce alle successive complicazioni sentimentali - il rapporto triangolare con Kay), l'omicidio di Dalia Nera e le relative indagini (con fitti intrichi di sottotrame, compresa la vicenda umana della vittima), il passato di Kay e il suo rapporto con DeWitt, il rapporto tra Lee e Madeleine, la scomparsa di Lee e la ricerca di Bucky (con brusco cambio di scenario: Tijuana).
E' importante la precisazione relativa alla complessità narrativa del romanzo poiché questa consente di apprezzare vieppiù l'abilità con la quale lo sceneggiatore Josh Friedman (che ha lavorato sullo script per due anni) condensa i temi fondamentali, distillando l'essenza del testo senza compromettere la tenuta della narrazione. L'adattamento è efficace nella scelta dei percorsi da seguire, drastico nel tagliare alcuni frammenti che sembravano invece scritti per il grande schermo, nel modificare o semplificare certi passaggi per puntare decisamente sull'approfondimento del carattere dei personaggi a tutto scapito (non è una critica, è una constatazione) del lato "investigativo" della faccenda (è evidente come a De Palma, e ad Ellroy del resto, non importi il whodunit quanto misurare l'impatto che il delitto ha sull'ambiente descritto e sui protagonisti): lo stesso porre il corpo esanime della vittima lontano dallo sguardo degli spettatori, sorta di quinta visiva e mentale che inquadra la vicenda più che centrarla, insistendo piuttosto sul diretto confronto con la donna viva (i provini (1)) ne è ulteriore dimostrazione.
Se è vero poi che l'ossessione necrofila del protagonista è più intuita che decodificata, è vero d'altronde che le fitte implicazioni che il personaggio ha con gli altri caratteri, riesce a far emergere, con bella disinvoltura e nei momenti cruciali, la loro pervicace tendenza a mentire, il loro essere sempre, e per motivi differenti, compromessi con la realtà nella quale sono calati: in questo senso Bucky risulta progressivamente e coerentemente una marionetta manovrata per scopi oscuri che verranno infine a galla.
Cosa può aver attirato il regista (l'adattamento nasceva per David Fincher che avrebbe dovuto dirigerlo nel 1997) sembra piuttosto chiaro: Hollywood come fabbrica di corpi, il cinema - anche pornografico - come sfondo e chiave di lettura (2), l'ossessione VERTIGinOsa per la riproduzione in vita di un cadavere che tormenta l'inconscio (Madeleine come body double della Dalia Nera), la torbida sessualità, temi cari al Nostro che però l'autore lascia delicatamente sottotraccia, l'affresco, splendidamente fotografato da Zsigmond, avendo un respiro meno soffocante e personalizzato del solito.
In effetti, anche se Ellroy ci tiene a precisare che "il fottuto noir è fottutamente morto" (nella letteratura), "Black Dahlia" (il film) si pone, anche e ovviamente, come un omaggio, molto rispettoso e poco giocoso (questo ha deluso chi si pone davanti allo schermo con le famose, deprecabili aspettative) a un'era del cinema, a una galleria di archetipi, a un'atmosfera e a un genere: dalle dissolvenze a tendina, dalle movenze esasperate degli attori (i loro toni, i loro corpi - perfetta le scelta di ciascuno di essi, in particolare di Hartnett che ha presenza, espressioni e caratteristiche fisiche perfette per il suo ruolo), alla scritta "The End" che campeggia classicamente nel finale, tutto risulta funzionale a questo discorso finemente ripropositivo. Così la voice over, che è una diretta emanazione del racconto ellroyano, svolto in prima persona, risulta di fatto elemento ulteriore lavorato per mantenere il film sul solco della tradizione alla quale si rifà direttamente.
Su questa base pregna, De Palma naviga magistralmente, dirigendo con solida maestria il suo splendido cast, concedendosi qualche numero (perfettamente integrato e mai isolato virtuosismo): la straordinaria scena nel locale lesbo (KD Lang che canta in smoking), il bellissimo piano sequenza dall'alto (la mdp parte da una donna, passa a seguire un'automobile prima e una bicicletta poi, per planare sulla lite della coppia che cammina), la mirabile soggettiva (lo sguardo di Bleichert) in casa Linscott - uno dei momenti più memorabili del film - scena che fa virare l'opera su un registro grottesco efficacissimo nel rendere appieno la follia di questa dissimulata famiglia Addams - sequenza apparentemente demenziale ma carica (lo dirà il senno di poi) di indizi - la morte di Lee, riconoscibile firma all'intero lavoro.
(1) A proposito dei provini, la voce fuori campo che li conduce è (nella versione originale, ovviamente) quella di De Palma che ha confermato in conferenza stampa di aver tenuto buoni i veri provini della Kirschner, onde mantenere intatto quel carattere di naturale incertezza che li animava.
(2) L'immagine del quadro del pagliaccio è molto presente nella mente dell'assassino. De Palma: "Quale è il modo migliore per mostrare questo particolare? C'è un film... Certamente c'è stato". Così i protagonisti vanno al cinema a vedere L'uomo che ride di Paul Leni, tra l'altro pellicola della Universal, una delle prime della storia a inserire elementi di sonoro.
(in collaborazione con Gli Spietati)
cast:
Josh Hartnett, Scarlett Johansson, Aaron Eckhart, Hilary Swank
regia:
Brian De Palma
titolo originale:
The Black Dahlia
distribuzione:
01 Distribution
durata:
121'
produzione:
Art Linson, Avi Lerner, Moshe Diamont, Rudy Cohen
sceneggiatura:
Josh Friedman
fotografia:
Vilmos Zsigmond