Davanti a una finestra che rosseggia al sole del tramonto, un uomo è in piedi, immobile e di spalle. Fuori campo, la moglie pronuncia, tra le altre, parole di pietra che ci introducono in un menage familiare fatto di incomunicabilità e incomprensione: “Per quanto tempo si può sopportare di vivere accanto a un’ombra?”. Nessuna risposta. Adnan, questo il nome del protagonista, è un uomo di mezza età che divide la propria esistenza tra l’alcool e il frutteto, unico luogo nel quale sembra trovare rimedio alla propria inquietudine esistenziale.
L'uomo è però in rotta di collisione soprattutto con il padre che, deluso, arriva a diseredarlo di ogni bene. Lo stesso sceicco che redige l’atto di successione crede che la distanza intergenerazionale possa scavare un solco così profondo. Adnan è un personaggio la cui abulia ricorda il male di vivere de "Lo straniero" di Albert Camus, anche se i contesti sono profondamente differenti. Con lo scrittore francese siamo nell’Algeri dei pieds noires del secondo dopoguerra e sul capo del protagonista pende una pesantissima accusa di omicidio; le location del film d’esordio di Ameer Fakher Eldin sono invece sulle alture del Golan, al confine tra Siria, Libano e Israele, nel contesto della guerra in Siria. È da cinque anni che non può andare a Damasco, e quando con un amico arriva a bordo della sua auto a uno dei tanti posti di blocco israeliani, il suo disagio ricorda quello visto in Free Zone (2005) di Amos Gitai, con i viaggiatori perennemente in balia delle angherie e dei capricci di chi imbraccia un fucile. Ma il viaggio che Fakher ci propone non è quello del road movie che attraversa frontiere, bensì quello nell’animo di Adnan. La sua vita sembra avviata su un binario morto: perfino il cognato, nell’intento di preservare la felicità della sorella, gli impone di divorziare, giacchè lei non ne sarebbe capace. Poi, improvvisamente, il protagonista sembra ritrovare una ragione di vita nel momento in cui convince i suoi amici a soccorrere un soldato ferito comparso dal nulla oltre una siepe di recinzione. Un vecchio compagno di studi, ora medico, non se la sente però di curare lo sconosciuto, anche per evitare guai con le autorità israeliane. Sarà Adnan stesso, allora, a prendere in mano i ferri di quello che sarebbe dovuto essere il suo mestiere, se non fosse che i suoi studi a Mosca sono rimasti interrotti. Il protagonista si guadagna la fiducia del soldato al punto da esaudirne le più intime volontà. La personalità del protagonista, apparentemente monotona, piatta e rinunciataria alla vita della prima parte del film, cede il posto ad argomentazioni e interrogativi che rovesciano completamente anche il rapporto con lo spettatore. Restìo a lasciare il paese per dare un futuro alla figlia (come è invece nei desiderata della moglie), convinto che il frutteto debba essere accudito e preservato dal gelo, l’uomo vi si reca sempre più frequentemente, abbandonandosi a degli eloqui dalla cadenza perfettamente concorde rispetto alla percezione del tempo che scorre.
Con la pacatezza di chi ha colto fino in profondità l’essenza della condizione umana, le sue esternazioni dal sapore malickiano sanno ora di mite saggezza, e le inquadrature in campo lungo che lo incorniciano completamente solo a zigzagare tra i tornanti collinosi o inoltrarsi nella nebbia campestre rendono giustizia della sua inquietudine. Parole come “Forse sono uno straniero in questo mondo…Un’alienazione crudele…mi fa pensare a una patria magica che non conosco”, o ancora “Qui dove il sole scompare non abbiamo più un volto” ci danno la dimensione poetica della sofferenza scaturita dalla privazione dell’identità, acuita da musiche struggenti e dalla dimensione elegiaca e contemplativa delle inquadrature.
Per quanto riguarda lo stile di regia, l’intero corso del film è punteggiato di immagini metaforiche, di simbolismi, di allegorie che tacitamente ci dicono di una terra e un uomo feriti nel profondo. Il dettaglio sul caffè che si rovescia sul fornello durante le tese discussioni sul da farsi riguardo al soldato ritrovato; il sangue della mucca che con crescente stillicidio contamina il latte al momento della mungitura facendo presagire un futuro fatto di violenza; il fumo che invade la baracca di Adnan e non meno della nebbia che domina il paesaggio ipostatizza la perdita dei punti riferimento, l’obnubilamento della coscienza. Tutto ciò che circonda Adnan e gli altri personaggi del film ci parla con un linguaggio al contempo semplice ma semanticamente denso. E poi c’è la pioggia che in alcuni momenti sembra non finire più, le inquadrature ravvicinate sui corsi d’acqua mormoranti, una candela che si spegne autonomamente dopo l’uscita di Adnan dall’inquadratura: stilemi espressivi che sanno di Andreij Tarkowskij, dell’Akira Kurosawa di "Dersu Uzala". La solitudine familiare, esistenziale di Adnan è esibita anche con inquadrature che nella sua dimora non lo mostrano mai in un totale. Da segnalare un singolare piano sequenza in cui il protagonista, prima inquadrato da lontano con un punto di vista oggettivo, avvicinatosi frontalmente al soldato ferito, rende soggettiva la prospettiva. Alla fine del film, Adnan, che esaudisce le ultime volontà del soldato da lui soccorso, terminato un breve monologo, immerso in un paesaggio brumale conclude con un interrogativo che dà il senso all’intera pellicola: “Come possiamo temere la morte se non siamo ancora vivi?”. The Stranger è un film sull’assurdità della guerra, sulle macerie interiori che questa sedimenta, sul senso di sradicamento e inquietudine. L’opera Fakher Eldin è stata candidata agli Oscar 2022 e ammessa alla Giornata degli autori a Venezia 77.
cast:
Hitham Omari, Amer Hlehel, Amal Kais, Mohammad Bakri, Ashraf Barhoum
regia:
Ameer Fakher Eldin
titolo originale:
Al Garib
durata:
112'
produzione:
Fresco Films, Red Balloon, Metafore, Apricot films
sceneggiatura:
Ameer Fakher Eldin
fotografia:
Niklas Lindschau
scenografie:
Bashar Hassuneh
montaggio:
Ameer Fakher Eldin
costumi:
Hamada Atallah
musiche:
Rami Nakhlee