Giunto al terzo lungometraggio, Peter Landesman conferma la predilezione per il biopic contemporaneo. Il protagonista è Mark Felt, il notorio "Gola Profonda" che contribuì con la divulgazione di scottanti segreti federali alla detonazione dello scandalo Watergate. Il maggiore scandalo della storia politica americana vide coinvolte Casa Bianca, CIA ed FBI nello spionaggio illegale di concorrenti politici e nel successivo tentativo di copertura, provocando le dimissioni del colpevole presidente Richard Nixon per impeachment nel 1974. Non è la prima volta che il grande schermo narra il caso Watergate: fra i precedenti più illustri, "Tutti gli uomini del presidente" (Alan Pakula, 1976), con Dustin Hoffmann e Robert Redford nella parte dei brillanti e coraggiosi giornalisti Bernstein e Woodward, e "Nixon" (Oliver Stone, 1995). Inedito è invece il focus su Mark Felt, che pure assolse un ruolo cruciale nella vicenda. Il film di Landesman ambisce tuttavia a un ritratto completo del personaggio, raffigurato non solo nelle vesti di agente federale, ma anche in quelle di padre e marito.
La storia è nota. Alla morte del famigerato direttore dell'FBI J. Edgar Hoover (a cui è dedicato il biopic "J.Edgar", Clint Eastwood, 2011), l'eminenza grigia Mark Felt (Liam Neeson), vicedirettore del Bureau con trent'anni di servizio all'attivo, è sgomento e deluso nell'apprendere che la poltrona vacante verrà occupata dall'ex-marine Pat Gray. È soltanto la prima di una lunga serie di ingerenze volte a subordinare l'agenzia federale alla Casa Bianca, violando la tradizionale indipendenza del Bureau. Felt si troverà nella scomoda posizione di dover tradire l'istituzione che rappresenta per il bene dell'istituzione stessa. L'atmosfera non è delle più rilassate neppure a casa: la figlia Joan è fuggita con gli hippies e l'apprensiva consorte Audrey (Diane Lane) dà chiari segni di esaurimento.
Il Felt di Landesman è un uomo impenetrabile, sfuggente, abile nel compensare la carenza di carisma con un mimetismo diabolico che gli permette di muoversi agilmente attraverso un intricato groviglio di relazioni e sotterfugi. Il ritratto si avvale di un'estetica minimale, rigidamente controllata. Se si esclude qualche occasionale carrellata panoramica sui tetti di Washington, il film è girato quasi interamente in ambienti interni contraddistinti da un'austera nudità. Al tenue algore della gamma cromatica, aggravata da un'ubiqua tetraggine, si assomma un'analoga freddezza materica: ricorrente la presenza di marmi, neon, vetri e metalli. La propensione al distacco, emotivo e psicologico, è acuita dai frequenti inserti di materiale audiovisivo d'epoca. Eccetto alcune occasionali riprese in shaky cam, anche lo stile di regia è misurato e puntuale, composto da inquadrature tendenzialmente brevi e statiche.
In un simile quadro formale è lecito attendersi che lo sviluppo della narrazione si regga in prevalenza sulle prove dialogiche ed espressive degli attori, difatti Landesman opta per una dovizie di primi e primissimi piani, mezze figure e piani americani. A questo riguardo, si rivelano incisive le interpretazioni, mentre pedanti e presuntive le battute. L'addizione dei summenzionati elementi sottrae all'opera ritmo e vigore e il film si macchia perciò di un paradossale eccesso di misura, che su un piano estetico si traduce in una desolante uniformità stilistica. Il virus della monotonia colpisce anche il commento musicale di Daniel Pemberton, partecipe ma timido, pervasivo ma inefficace. All'elenco dei difetti si aggiunge forse il più grave, ovvero la carenza di coesione narrativa. La vicenda narrata, spalmata in un arco temporale che va dal 1972 al 1976, paga una condizione limbale, sospesa fra l'aderenza a un genuino biopic (e.g., la vita di Mark Felt) e un'ennesima ricostruzione del caso Watergate (e.g., il Watergate secondo Mark Felt). Felt-padre, Felt-marito e Felt-agente federale vi figurano come blocchi sovrapposti e sconnessi ove il terzo ha, in relazione agli altri, un'eccessiva prominenza. Per sofferta ammissione del regista, la produzione ha imposto massicci tagli alla performance di Diane Lane, alterando l'armonia e l'equilibrio dell'intreccio. La vicenda familiare di Felt offriva comunque vari spunti di interesse, che non sono però stati approfonditi né considerati dalla sceneggiatura - ad esempio, i Felt trovarono effettivamente la figlia Audrey in una colonia hippie, ma era una colonia nudista. Perché mai sbarazzarsi di una simile nota di colore?
Regia e sceneggiatura si macchiano di superficialità e piattezza nel quadro disorganico di questo "The Silent Man", che nel modesto avviso di chi scrive non merita la sufficienza. Un voto sublime va assegnato invece ai distributori italiani, da sempre fautori di un'implacabile guerrilla contro i titoli stranieri: con una disinvoltura che ha dell'incredibile (o trattasi di altissima ironia?), hanno affibbiato l'appellativo "silent man" a un individuo passato alla storia come il più grosso spifferone nella storia dei servizi segreti americani.
cast:
Liam Neeson, Diane Lane, Marton Csokas, Ike Barinholtz, Tony Goldwyn, Tom Sizemore, Bruce Greenwood, Michael C. Hall, Josh Lucas, Maika Monroe
regia:
Peter Landesman
titolo originale:
Mark Felt: The Man Who Brought Down the White House
distribuzione:
BiM Distribuzione
durata:
103'
produzione:
Endurance Media, MadRiver Pictures, Playtone, Riverstone Pictures, Scott Free Productions, Torridon
sceneggiatura:
Peter Landesman
fotografia:
Adam Kimmel
scenografie:
David Crank
montaggio:
Tariq Anwar
costumi:
Julia Spizzica
musiche:
Daniel Pemberton