Se un pasto può essere una metafora della vita, forse la gastronomia molecolare è la più falsata delle rappresentazioni. Oppure se vuole essere una metafora dell’aspirazione dell’artista alla perfezione tradita da un pubblico imbelle e ignorante, la raffigurazione culinaria può essere estremamente fluida e imperfetta.
“The Menu” mette in scena – e mai come in questo caso particolare può essere corretta una definizione del genere - una cena organizzata dallo chef Julian Slowik (Ralph Fiennes) per un selezionatissimo gruppo di ospiti presso il suo esclusivo ristorante – 1.250 dollari a commensale – che si trova su un isolotto per il resto deserto, lontano da qualsiasi agglomerato urbano e tagliato fuori da ogni comunicazione se non per un traghetto privato per trasportare i clienti.
Fin dall’inizio, quando vengono presentati i vari personaggi, protagonisti della cena, si respira un clima sottilmente ostile. Grazie anche a Margot (Anya Taylor-Joy), accompagnatrice di Tyler (Nicholas Hoult) cultore e fan dello chef Slowik che rasenta l’adorazione religiosa, possiamo percepirla. Lo sguardo di Margot è quello dello spettatore: un po’ incredulo, un pizzico sbigottito e, nel momento in cui inizia la cena, anche irritato per la cucina “concettuale” espressa dallo chef.
Infatti, scopriamo dalle prime sequenze che Margot ha sostituito all’ultimo momento la ex-fidanzata di Tyler, costretto a invitarla perché da Slowik è obbligatoria “la prenotazione di tavoli per due persone”. Così se Tyler e la critica gastronomica Lillian Bloom (Janet McTeer) rappresentano i fanatici di questa cucina, che apprezzano la realizzazione di piatti cucinati con tecniche particolari (basate su trasformazioni chimiche e fisiche fatte attraverso macchinari specifici, utilizzando l’azoto liquido, ultrasuoni ecc…), un altro gruppo invece arriva solo per mettere in mostra la posizione economica visto il conto della cena.
Dicevamo “il metter in scena”. In effetti, non c’è un vero racconto in “The Menu”. Lo spazio principale è la sala da pranzo con la cucina visibile alle spalle e davanti una vetrata che si affaccia sul bosco che divide il ristorante dal mare. Una scelta teatrale in cui il servizio dei vari piatti sono come degli atti di una tragicommedia grottesca che tracima nell’horror. Un horror privo di vero e proprio splatter (a parte due scene che lasciamo allo spettatore scoprire). In questo senso Slowik è il demiurgo che spiega ogni piatto e con il battito delle mani cadenza il servizio e gli stacchi con la brigata di cuochi alle sue spalle che con il loro “sì, chef!” o “no, chef!” appaiono come un coro greco.
Tutti sono stati invitati alla cena finale di Slowik per un motivo specifico, eccetto Margot che viene praticamente scoperta come la vera intrusa nella sottile tela imbastita dallo chef. Abbiamo, come abbiamo detto, Tyler, l’unico che sa cosa succederà nella cena, martire volontario per una fideistica velleità di essere ciò che non potrà mai raggiungere. La Bloom si riempie la bocca di parole sofistiche e definizioni a livello di calembour linguistici per definire i sapori dei piatti, accompagnata dall’editore del suo giornale completamente appiattito su qualunque sentenza della donna. L’attore famoso decaduto, tracotante e volgare, con la sua assistente, laureata alla Brown University e ridotta a soddisfare i capricci da star dell’uomo. La vecchia coppia di ricchi, con la moglie abbruttita e l’uomo avvolto dal potere del denaro, che non capisce nemmeno quello che sta mangiando. Infine, tre giovani arroganti soci del padrone del ristorante in cui Slowik lavora (e che apparirà come figura angelica in una scena particolare). Anche tutti i collaboratori e le collaboratrici di Slowik, siano essi cuochi, camerieri, enologi, sono completamente sottomessi alla volontà dell’uomo. Vivono immersi letteralmente nella cucina e se una dichiara che sono “una famiglia”, appaiono più una setta religiosa in cui Slowik veste i panni del santone che dispone della vita e della morte di ognuno di loro.
Sono tutte delle maschere di una società in cui il denaro, l’esercizio del potere e l’apparire superficiale sono gli elementi distintivi di un nichilismo autodistruttivo. Del resto, ognuno di essi è ormai una rana nel pentolone di acqua calda inconsapevole di essere bollita a fuoco lento e che, quando si accorge del pericolo, non ha più la forza di reagire in alcun modo se non lamentandosi della fine in arrivo (e inevitabile). L’unica ancora “viva” è Margot e sarà lei a tenere testa a Slowik in un sottile duello di attese, fughe in avanti, rallentamenti, fino alla salvezza finale utilizzando uno stratagemma anch’esso culinario.
La messa in scena di “The Menu” si basa sulla sottrazione, come “il pane senza pane”, dove viene servito un piatto vuoto se non per i condimenti, in una mancanza assoluta di ciò che conta veramente in un pasto così come nella vita. Margot si ribella alla cucina dello chef, urlando la sua insoddisfazione e chiedendo un cheeseburger a Slowik, riportandolo a quando soddisfaceva i clienti all’inizio della sua carriera di semplice cuoco, prima di diventare uno chef di una cucina concettuale in cui il cibo sparisce per fare posto a una rappresentazione icastica di proteine, carboidrati, verdure e zuccheri ricomposti in alimenti che esistono solo nella mente di chi cucina e di chi mangia.
Le scenografie geometriche e spoglie, i movimenti minimi e artefatti, le coreografie che accompagnano l’impiattamento sono la forma con cui è composto “The Menu”. Il regista Mark Mylod è un ottimo mestierante (con una più vasta esperienza televisiva) che diligentemente segue le indicazioni di sceneggiatura. E la critica sociale sottesa alla rappresentazione la si deve principalmente a Seth Reiss e Will Tracy, ma, soprattutto, non andando troppo lontano, ad Adam McKay, autore di “La grande scommessa”, “Vice – L’uomo nell’ombra” e “Don’t Look Up” (con cui “The Menu” ha quantomeno più punti di contatto), che qui è uno dei produttori della pellicola.
Il valore aggiunto di “The Menu” non è tanto nella sua messa in scena né nella denuncia di una società mortifera, ma nell’atmosfera sospesa e nella grande recitazione di un cast ottimamente diretto sui cui si elevano le interpretazioni di Ralph Fiennes, Anya Taylor-Joy e Nicholas Hoult. Certo, alla fine, “La grande abbuffata” (1973) di Marco Ferreri aveva già detto tutto con largo anticipo, ma il primo piano della Taylor-Joy che addenta il cheeseburger succulento e materico, con l’autodafé di Slowik e compagnia sullo sfondo, vale una visione di “The Menu”.
cast:
Ralph Fiennes, Anya Taylor-Joy, Nicholas Hoult, Hong Chau, John Leguizamo, Janet McTeer
regia:
Mark Mylod
titolo originale:
The Menu
distribuzione:
Searchlight Pictures
durata:
106'
produzione:
Hyperobject Industries
sceneggiatura:
Seth Reiss, Will Tracy
fotografia:
Peter Deming
scenografie:
Gretchen Gattuso
montaggio:
Christopher Tellefsen
costumi:
Amy Westcott
musiche:
Colin Stetson