Un uomo in affanno, la moglie, un figlio unico alla vigilia della prova di maturità; un quartiere povero che presto sarà raso al suolo.
Qiwu Zeng ci offre uno spaccato della Cina francamente non inedito (vedi, tra gli altri, un riuscito meglio "
Al di là delle montagne") e che cementa il rassicurante senso di
deja-vu di un colosso geopolitico col quale, presto o tardi, si dovrà fare i conti. Sarebbe interessante capire il punto di vista governativo su questa cinematografia realista. Che tende a raccontare
le cose come sono senza grandi concessioni allo spettacolo cui ci ha viziati uno Zhang Yimou (di cui peraltro Qiwu è stato aiuto-regista), tanto per citarne uno.
Perché la sensazione del messaggio, che spazza via la forma fino a ridurla una registrazione pedissequa di ciò che, ineluttabilmente, è destinato ad accadere, è di una profonda inquietudine cui si somma la tipica imperscrutabilità estremo-orientale che agisce con logiche molto diverse dalle nostre. Poco importa che Jang Ba (Ni Dahong) metta in moto una storia che gli scappa dalle mani e si risolva nel modo più drammatico ma anche più semplice. L’impressione, ripetiamo, inquietante, è che le immagini che vediamo non corrispondano alla storia che ci raccontano, che le immagini corrispondenti stiano tutte nell’aborto delle inquadrature, a sinistra e a destra, in alto e in basso, davanti e dietro, in quell’astrusa e aleggiante dottrina del "liberismo di Stato" che è il vero motore, in tutte le sue contraddizioni, di una storia come questa. Jang Ba è un buonuomo, una immagine-affetto per eccellenza. Di modeste vedute, ripara gomme per pochi yuan e sente su di sé il fallimento di un’ambizione che gli fa difetto, il peccato originale dell'uomo onesto ma votato alla miseria nonostante le mille opportunità di una economia a pieno vapore (anche un po' in crisi, suggerisce la radio). Il suo cugino Li Daguo (un imperturbabile Qi Dao) invece è ricco, non si capisce come ma ce l’ha fatta, parla di milioni con estrema disinvoltura e anche con una totale assenza d'alterigia, probabile frutto di un clima di precarietà ben inculcato dal governo centrale. Il giovane uomo architetta scalate sociali a vantaggio del cugino povero che non sono evidentemente una semplice questione di soldi. Un’architettura leggera e inesorabile come una nuvola di drago, che cozza terribilmente con l’urbanistica del quartiere derelitto di Jang Ba, solido ma squallido, solidale ma invidioso, destinato a far spazio a una zona residenziale per i neo-ricchi. Il volo del drone che si alza come una panoramica e fotografa la sghembissima geometria dei palazzoni-alveari, delle officine luride, delle biciclette scalcinate e di quel ponte saldissimo ma terrificante come una neoplasia su cui un treno sferraglia ogni sessanta secondi, diventa così un’immagine ambigua dell’uomo che distrugge per ricostruire. Ricostruire le cose, evidentemente, non le persone o i tessuti. E qui l’ellissi non è di poco conto.
A chi tutto ha e tutto può, però, manca un rene. Manca alla sorella di Li, una dolce signora che non ha mai bevuto un bicchiere d’acqua in vita sua. Quando il primo trapianto va male e c’è bisogno di un organo "più giovane", le cose precipitano e finisce in tragedia.
Non siamo sicuri che "The Donor" sia uno strumento utilissimo per decodificare una cultura che ci è aliena. Ci rassicura di certo il linguaggio filmico che riconosciamo universale e qui non dispiegato al pieno delle sue possibilità. Le instancabili carrellate sui luoghi ci ricordano le nostre suburbie anche se, molto spesso, qui da noi è sempre più difficile trovare quegli elementi di solidarietà e morale che creano i tessuti minimi di sopravvivenza e che hanno fatto il cinema dei Monicelli, Zampa e anche dei Risi. La fotografia, sempre a fuoco e brulicante di cose e di persone, si dispiega prevalentemente negli esterni, che sono il luogo preferito dai poveri per sfuggire agli spazi angusti delle loro case squallide e infestate dagli odori. Non che l’aria fuori sia salubre, comunque. Il sonoro, in presa diretta, è ovattato e udibile fin nel venticello che spira ad alta quota, registrato dal drone, ma che non riesce a trafiggere la cappa a mezza altezza. Il parlare piano, il muoversi con circospezione sembra rispettare il monito di Mao ("Se tutti i cinesi, contemporaneamente, facessero un salto, si produrrebbe un terremoto di portata mondiale").
E così si dialoga con circospezione (salvo quando entra in gioco la gelosia), ci si muove con grazia, evitando l’attrito non solo con le persone e le cose ma persino con la propria ombra. È una possibile chiave di lettura, questa: l’immanenza. Niente si manifesta, tutto è paventato, solo in ultimissimo arriva la guardia che ristabilisce l’equilibrio, senza clamore, ellittica pure lei. La morale è stata castigata pur avendo vinto. In virtù di una azione irreversibile, l’omicidio come metafisica pura.
"The Donor" ha vinto il premio come Miglior Film e Migliore Sceneggiatura alla 34° edizione del Torino Film Festival
28/11/2016