C'è sempre qualcosa là fuori. E, come riportato in esergo all'alba di "The Monster" (2016), "si nascondono e guardano, aspettano e osservano. Oh, i mostri ci sono per te e per me".
E sono mostri cangianti, quelli di Bryan Bertino, che al suo quarto film da regista si abbandona all'evoluzione dell'ineluttabile scarnificando il suo orrore da ogni residuo tratto di umanità/mortalità.
Con "The Dark and the Wicked", che approda al TFF numero 38 aprendo la nuova sezione Le stanze di Rol (dal nome del sensitivo torinese Gustavo Adolfo Rol, riferimento di un Fellini orfano di Bernhard), siamo nel cuore rurale di un Texas di smisurati spazi aperti e fattorie sperdute. In una di queste, specie di container dal profilo oblungo, tornano i fratelli Louise e Michael, richiamati ad assistere un padre in fin di vita e una madre psicologicamente instabile, sopraffatta da qualcosa di maligno che pare avvolgere l'intera abitazione.
Se le famiglie disfunzionali sembrano esser diventate il bersaglio preferito di certo horror contemporaneo (Aster, Lanthimos) in "The Dark and the Wicked" c'è un costante senso di resa dei conti in cui i meccanismi dell'affettività e dei legami di sangue non sono in grado di agire sulla realtà né di modificarla. E qui, vale, il crescente slittamento di Bertino verso una visione inscalfibile del destino ultimo. Ciò che incombe si è fatto mastodontico e inattaccabile: dalle maschere con le orbite vuote che nascondevano l'identità di assassini senza pathos ("The Strangers") si è passati ad esseri mutanti e preistorici ("The Monster") per accogliere, infine, il demoniaco.
Il fulcro della reunion familiare, quel padre ridotto all'immobilità nel suo lato del letto matrimoniale, e attorno al quale tutti sembrano darsi un gran daffare, è esso stesso travisato: percepito come l'oggetto da proteggere oltre ogni ragionevolezza, risulta essere l'ultima sentinella (parafrasando Michael Winner) da opporre al martirio. Il male che legifera dentro e fuori le mura domestiche segue regole di condotta ben più rigorose, che cozzano con il caos che pervade animi incapaci di trovare un punto di contatto, appunto un'empatia. Ognuno è impegnato a domare il proprio subbuglio interiore, i dialoghi sono un bisbiglio utile a placare forse la propria coscienza, ma totalmente inadeguati a trovare una chiave, muovere una strategia. Si viene travolti, si desidera essere travolti.
Per Bertino l'horror è ancora un affare rigoroso e nell'articolo determinativo che intesta le sue opere è possibile riconoscere la negazione del compromesso. Lo si comprende nel modo con il quale blandisce i clichès, restandoci impantanato (nella prima parte), modulandoli con sagacia (nella seconda, bellissima, parte); nell'ambientazione che non si maschera nel buio e che si fa feroce soprattutto in pieno sole; nella gestione del liminale (fisico e metafisico) che, ci ricorda, esiste per essere varcato e per spazzare via – per dirla con un paradosso di Flaiano - "la nostra saggezza di ritenerci poco mortali".
In particolare è nella negazione di "luoghi sicuri" che spiazza e convince in "The Dark and the Wicked" che senza bisogno di varchi o rituali – (non c'è Necronomicon, per dirla con Sam Raimi) o vampireschi inviti ad entrare – permette al male di dilagare, uscendo ed entrando liberamente da una casa o da un corpo, coprendo distanze incalcolabili e riportando tutto e tutti al punto di partenza come se (e ancora "Evil Dead" è l'esempio migliore) il ponte sul fiume anziché essere crollato, non fosse mai neppure stato costruito. I fantasmi di Bertino sono prima ancora che negli occhi, nella testa, della sciagurata famiglia: suggeriscono il senso di colpa e assistono agli atti di automutilazione che si fanno più efferati man mano che la mente prende coscienza di sé. Per questa ragione – duole dirlo – si sarebbe potuto prescindere da certi inflazionati jumpscare (accompagnati dal consueto corredo di dislocazioni ad alta velocità) ai quale invece il regista texano non riesce a sottrarsi, annacquando, in certi frangenti, il realismo carnale della propria, storica, visione.
D'altronde però quella porta di casa spalancata sulla prateria e su un invisibile sentiero selvaggio, mentre Michael, con gli occhi stretti trafitti da un sole discendente e il cappello da cowboy in testa osserva la pecora solitaria tornare verso casa con la zampa posteriore ridotta ad un grumo di sangue e nervi in bella vista, è un fulgido esempio di come la purezza di genere possa lambire altri lidi. Ed è come essere in presenza di un western disperato o in un frammento di un romanzo di Cormac McCarthy. C'è una bandiera a stelle e strisce maciullata dal vento che garrisce solitaria, senza possibilità di riscatto. Si muore da soli. O al massimo in compagnia dei propri fantasmi.
cast:
Marin Ireland, Michael Abbott Jr., Xander Berkeley
regia:
Bryan Bertino
distribuzione:
RLJE Films
durata:
93'
produzione:
Bryan Bertino, Adrienne Biddle, Sonny Mallhi, Kevin Matusow
sceneggiatura:
Bryan Bertino
fotografia:
Tristan Nyby
scenografie:
Ashley Landavazo
montaggio:
William Boodell, Zachary Weintraub
costumi:
Elizabeth Trott
musiche:
Tom Schraeder