Amato o detestato. Alla stessa stregua di
Von Trier, si va delineando all'insegna di un'ostentata vena provocatoria la carriera di Yorgos Lanthimos, il più celebre cineasta della nuova onda greca emersa nel circuito festivaliero negli ultimi anni (gli fanno compagnia, fra gli altri, Alexandros Avranas e Athina Rachel Tsangari). Se nei precedenti lavori, compreso "
The Lobster" del 2015 (il suo primo film a godere di una produzione internazionale, e con il medesimo attore protagonista di quest'ultima prova, Colin Farrell), il regista manifestava una netta propensione per il racconto allegorico, questa volta l'impostazione cambia leggermente, dal momento che l'elemento fantastico - sia pur privo di spiegazioni razionali - appare maggiormente calato in un contesto realistico.
Invece, mai come in questo "Il sacrificio del cervo sacro" (titolo che si ispira alla figura di Ifigenia, appartenente alla mitologia greca) Lanthimos si era addentrato di fatto nell'horror. Eppure il film è proprio questo: alla larga da etichette di genere, quel che conta sono le modalità e la materia del racconto. E da questo punto di vista siamo dentro a un thriller che sconfina esplicitamente nell'horror, sia pur dalla confezione estremamente raffinata. Appare evidente come Lanthimos abbia temperato il proprio stile. Si tratta forse del suo film esteticamente più ricercato, certamente quello in cui più spiccata è la componente "autoriale" già forte nei film precedenti. Se si vuole, si può anche ritenere fastidiosa la ricerca formale, ma il punto è che tacciarla di supponenza non avrebbe gran senso, poiché temiamo che tale critica possa essere troppo condizionata dal rigetto nei confronti delle provocazioni del regista (o delle sue velleità in tal senso, se si vuole). Tutti gli stilemi messi in campo nella pellicola, in realtà, appaiono funzionali al racconto, il che basta a ritenerli pertinenti. Non ci pare che il registro scelto sia indice di ridondanza o autocompiacimento, laddove ad esempio Lanthimos dilata i tempi per rarefare il racconto e introdurre
suspense, oppure ricorre a movimenti di macchina sinuosi per allarmare lo spettatore, o ancora a inquadrature dall'angolazione esasperata (dall'alto o dal basso; c'è anche una
plongée che resta particolarmente impressa), che puntano a ingenerare una sensazione di precario equilibrio - come se tutto fosse fuori asse sul punto di precipitare.
Ciò per cui il film delude, tuttavia, almeno parzialmente, è la sostanza di fondo. Le premesse sono assai interessanti; a non convincere è il punto d'arrivo. Si tratta di una pecca in cui Lanthimos incorre non per la prima volta: già "The Lobster" era, a parere di chi scrive, un film dal potenziale considerevole, tradito dall'esito involuto della conclusione cui approdava. Nel caso di questa nuova prova, il problema si avverte con fastidio ancora maggiore. Ed è proprio la pochezza delle conclusioni a gettare un'ombra retrospettiva su tutta l'operazione, che presta il fianco agli strali di chi è pronto a condannare Lanthimos per supponenza e velleità. Noi ci limitiamo a restare perplessi di fronte a quello che appare un ennesimo tentativo di épater le bourgeois, non sostenuto da una persuasiva visione morale. La "morale della storia" che si racconta in questo film - dove un chirurgo subisce la vendetta feroce del figlio di un paziente morto colpevolmente durante un suo intervento - gira attorno alla carenza di senso di responsabilità del protagonista, che per esteso vorrebbe allargarsi all'intera classe sociale di appartenenza.
Abbiamo menzionato Von Trier. Un altro nome che viene subito in mente di fronte a "Il sacrificio del cervo sacro" è quello di
Haneke, e forti sono in particolare le analogie con "
Funny Games". Con entrambi questi autori, Lanthimos condivide la propensione a provocare lo spettatore. Von Trier, a differenza di Haneke, ha sempre diviso molto perché il regista danese - a differenza del collega austriaco - è spesso e volentieri barocco, rischiando di eccedere e di sconfinare nel cattivo gusto. Haneke tutto il contrario: lavora di sottrazione, il suo cinema è ellittico e asciutto. Ma, quantomeno nelle loro prove migliori (non poche nel caso di Haneke), i due autori hanno da tempo dimostrato lo spessore e la complessità della visione sottesa alle loro "aggressioni al pubblico". Invece, il regista ellenico ci pare non abbia ancora convinto nel dimostrare che la cattiveria e l'acredine del proprio sguardo sia bilanciata da una prospettiva critica altrettanto intensa nei confronti del consesso umano, sociale e familiare che prende di mira.
22/06/2018