Quando "The Boys in the Band" venne rappresentato a New York sui palcoscenici dell’off broadway nell’aprile del 1968, per il drammaturgo Mart Crowley (1935-2020) significò avere vinto una sfida, e che sfida! Per la prima volta un testo dedicato soltanto a personaggi gay arrivava in teatro costituendo un precedente importantissimo visto che fino ad allora i grandi drammaturghi statunitensi, anche quelli che erano vicini a questo argomento, avevano sempre accuratamente evitato di affrontare l’omosessualità nelle loro opere per non incorrere in problemi di censura. Di norma l’ostacolo veniva ovviato presentando situazioni in cui l’orientamento sessuale dei coinvolti era latente, oppure sostituendo strategicamente figure femminili a quelle maschili, confidando sulla sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore che spesso in effetti premiava queste eroine ipernevrotizzate per ragioni francamente non sempre così chiare…
Crowley, grazie all’incoraggiamento e all’aiuto della star Natalie Wood, sua grande amica, riuscì a discostarsi da tutto questo e il suo contributo al teatro americano moderno e soprattutto alla drammaturgia lgbtqi+ fu fondamentale. Per un paio d’ore la gente non assisteva a discorsi "fumosi" e non c’erano attrici chiamate a mettere alla prova la propria vis dramatica con figure femminili bigger than life. C’erano invece attori chiamati a interpretare personaggi dichiaratamente queer che vivevano storie e situazioni tipiche di ogni uomo gay americano e non solo in quel periodo: storie d’amore costrette all’anonimato, innamoramenti a senso unico e un certo rancore verso i non troppi amici e confidenti, anche come indiretta valvola di sfogo nei confronti di una società che ancora li rifiutava.
Per queste ragioni, oltre a quelle più prettamente artistiche, "The Boys in the Band" si rivelò un testo forte e amaro perché descriveva un mondo gay che guardava al futuro (e al presente) senza grandi speranze. Nel 1969 i fatti di Stonewall e l’inizio delle battaglie per i diritti civili cambiarono decisamente lo stato delle cose: persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali cominciarono a reclamare un posto al sole nella società a stelle e strisce; i disincantati e amareggiati personaggi descritti da Crowley diventavano simbolo di una cultura gay, in continua evoluzione, nel frattempo già mutata. Quando William Friedkin portò il testo al cinema (primo film hollywoodiano a presentare una storia con tematiche e personaggi simili) le battaglie rainbow erano ancora relativamente recenti, tanti risultati importanti non erano neanche all’orizzonte, quindi che il futuro regista del "Braccio violento della legge" e "L’esorcista" avesse realizzato, restando fedele alla fonte, un film cupo e sostanzialmente privo di speranza veniva vista come la più normale delle soluzioni.
Anche se con gli anni i personaggi e le vicende raccontate da Crowley sono sembrati sempre più stereotipati, coi loro atteggiamenti fuori dalle righe, i drammi insuperabili e (anche se si tratta di personaggi esclusivamente maschili) gli atteggiamenti da dive del passato (l’estetica e la sensibilità queer deve tantissimo alla Hollywood classica), il testo ha conservato l’alone di titolo celebrato e il revival presentato a Broadway (e non solo) in pompa magna nel 2018, a cinquant’anni dal debutto, è stato accolto con grande successo, tanto da ottenere un premio Tony (riconoscimento inimmaginabile ai tempi dei primi spettacoli). Prodotto da Ryan Murphy, diretto da Joe Mantello e interpretato da un cast in grande spolvero (tutti attori gay dichiarati, ribadendo una battaglia molto sentita attualmente), lo spettacolo è stato talmente fortunato che Murphy ha deciso di realizzarne, con l’aiuto di Netflix, una nuova edizione cinematografica, affidata agli stessi protagonisti del successo teatrale (che dovrebbe avere anche una versione italiana il prossimo anno).
Di che parla "The Boys in the Band"? Di una festa di compleanno che peggio non sarebbe potuta andare. Michael (Jim Parsons, la figura che, ferma restando la coralità del testo, più si avvicina all’idea di protagonista), trentenne cattolico e gay non propriamente rasserenato, invita gli amici più intimi per festeggiare Harold, l’elemento più caustico del gruppo. Ci sono il nevrotico Donald (un Matt Bomer che presta la sua bellezza solare a un ruolo decisamente against type per lui), il flamboyant latino-americano Emory (lo scene-stealer Robin de Jèsus), il timido afro-americano Bernard (Michael Benjamin Washington) e gli amanti clandestini Hank e Larry (interpretati da Tuc Watkins e Andrew Rannels che adesso sono una coppia anche nella vita). Al gruppo si aggiungono un giovane "midnight cowboy" affittato per la serata (Charlie Carver) e Alan (Brian Hutchinson), compagno di college di Michael venuto a fare un’improvvisata a New York con l’idea di rivelare alcuni segreti non proprio semplici.
Come è facile immaginare, da un gruppo così eterogeneo non ci si può aspettare una seratina troppo tranquilla e l’arrivo del ritardatario festeggiato (un permanentato Zachary Quinto tutto battute sardoniche, pronuncia scanditissima e atteggiamenti blasé) non fa che alzare ulteriormente la tensione (per capire quanto Harold sia fondamentale nello sviluppo della trama basta ricordare che gli venne dato, per quanto molto liberamente, l’onore del titolo quando il film di Friedkin uscì in Italia). La festa per il compleanno del caro amico Harold prende una piega ancora più dura quando dopo varie frecciatine e pure una scazzottata si decide di fare un gioco che finisce con mettere tutti gli invitati di fronte alle loro problematiche irrisolte: coming out soffertissimi e rimandati, compromessi su monogamia o coppia aperta, parentalità negata o comunque non vissuta a pieno, ricordi di amori rubati e mai dimenticati.
Mantello è una vera autorità a Broadway sia come attore sia come regista, avendo interpretato e diretto spettacoli celebratissimi, come regista cinematografico invece finora vanta una sola esperienza e per di più risalente agli anni novanta, "Love! Valour! Compassion!", anche quella tratta da un celebre testo a tematica di Terence McNally. Quindi probabilmente i cinefili troveranno improbo l’accostamento fra lui e Friedkin, anche perché il nuovo "The Boys in the Band" versione Murphy/Netflix (sceneggiata dallo stesso Crowley con Ned Martel, partner abituale del famoso showrunner) è decisamente meno cupo della precedente versione. L’attico newyorkese dove la vicenda si svolge è ripreso dal direttore Bill Pope (collaboratore storico di Sam Raimi e delle sorelle Wachowski) con colori caldi e accesi. Questo cambio di registro potrà scontentare i puristi ma è in linea con la versione di Broadway che, pur restando fedele al testo, aveva trovato la chiave del successo nel raccontare non più un milieu gay contemporaneo alle prese con le delusioni del presente, ma uno fortunatamente superato grazie alle rivendicazioni e alle conquiste ottenute negli anni. Quindi nonostante l’affiatato cast esca con le ossa rotte dalla serata, un montaggio finale alternato dedicato ai vari personaggi ci fa capire che la vita continuerà e meglio per tutti loro e il futuro se non idilliaco sarà sicuramente più roseo.
cast:
Michael Benjamin Washington, Brian Atchinson, Tuc Watkins, Robin de Jesus, Charlie Carver, Andrew Rannels, Zachary Quinto, Matt Bomer, Jim Parsons
regia:
Joe Mantello
distribuzione:
Netflix
durata:
122'
produzione:
Ryan Murphy Productions
sceneggiatura:
Mart Crowley, Ned Martel
fotografia:
Bill Pope
scenografie:
Judy Becker
montaggio:
Adriaan van Zyl