In singolare coincidenza con le riflessioni inevitabilmente scaturite, a seguito dell’emergenza pandemica, sul corpo e sul suo rapporto con la medicina, sull’uomo e il proprio ruolo rispetto alla natura, è uscito prima per la settimana della critica al 77esimo Festival di Venezia e poi nelle sale "The Book of Vision", film del documentarista italiano Carlo Hintermann. La pellicola si presta a diverse chiavi di lettura.
La trama è caratterizzata da un continuo e agile trapasso tra due piani temporali ben distinti eppure tra loro comunicanti, che se riassunti, sacrificando le immagini alle parole, non rendono giustizia del pregio iconico dell’opera. Eva, una giovane chirurga, ha abbandonato una promettente carriera per dedicare tempo ed energie allo studio di un altrimenti oscuro medico prussiano, Johan Anmuth, che nel XVIII secolo si era battuto affinchè le diagnosi e le conseguenti terapie fossero il frutto di un rapporto profondamente empatico con i pazienti. Anmuth, medico presso la nobile famiglia del generale von Ouerbach, a testimonianza delle proprie convinzioni ha lasciato un libro e un ricco epistolario da cui Eva, grazie all’aiuto del suo tutor universitario, può attingere comodamente ogni informazione in merito. Il sempre più frequente pencolare tra presente (vicende personali di Eva) e passato (ricostruzione della biografia del medico nel contesto storico-sociale del ‘700 prussiano) anziché limitarsi a isolare e storicizzare quest’ultimo, rende invece entrambi i periodi come un continuum proposto allo spettatore quale chiave di volta per cogliere appieno il senso del film: Anmuth, che rappresenta una medicina in un certo senso antica, legata a una filosofia e a una concezione fisiologica di tipo qualitativo, e che considera il corpo non come un mero involucro di organi, ma come rivelatore di qualcosa di più profondo e immanente, che se ascoltato, per quanto muto, è in grado di parlare, si scontra con un giovane medico svedese, Nils Lindgren, il quale dovrà sostituirlo ed è invece antesignano di una medicina più razionale, quantitativa, di stampo cartesiano, in una parola, moderna. Mentre Anmuth è convinto che lo stato di salute, la corporeità stessa dei suoi pazienti sia profondamente legata alla vita della gente e alla natura del luogo, ai suoi boschi, alle sue acque, e può essere indagata anche grazie alle apprensioni, ai sogni e agli incubi riaffioranti con una sorta di approccio psicanalitico, il suo rivale considera tutto ciò alla tregua di farneticazioni non immuni da stregoneria. Sul piano narrativo, la continuità temporale di cui si diceva è favorita dal fatto che l’attrice che impersona Eva (Lotte Verbeek) è la stessa che svolge il ruolo di Elizabeth, moglie del generale, che è in attesa del terzo figlio, e dal fatto che anche Eva porta avanti una gravidanza, per giunta a rischio a causa di scompensi cardiaci. L’interesse per la figura di Anmuth diventa quindi in Eva sempre più profondo a mano a mano che si avvicina il momento del parto. Oltre a ciò va detto che Charles Dance interpreta sia Anmuth che il medico personale di Eva. La continuità del discorso filmico è essenzialmente incentrata sul corpo, come ha dichiarato il regista in una intervista. E, non a caso, sul corpo femminile, sul corpo in gestazione, sul corpo come simbolo della libertà e dell’autodeterminazione personale.
Ciò che fa difetto alla pellicola di Hintermann sono alcune ingenuità nella messa in scena. Prendiamo ad esempio uno dei passaggi chiave del film, che si ha quando una serva del generale von Ouerbach, che dopo una violenza subita ha avuto un aborto, viene accusata di stregoneria e rischia di essere cacciata di casa. È costei a spingere Anmuth a tenere un diario sui suoi pazienti, che è in nuce il futuro libro "Sulle visioni", con una motivazione specifica: dei nobili, nonostante il trascorrere del tempo, rimarrà traccia nelle lussuose abitazioni, negli arredi, nei sepolcri, mentre per il popolino comparire almeno nelle carte di un medico può essere motivo di orgoglio. Ebbene, il tutto è detto un po’ pomposamente, attribuendo al personaggio una coscienza di classe difficile da presupporre, al netto della finzione cinematografica.
"The Book of Vision" non si esaurisce tuttavia con un discorso sul corpo, ma presenta anche frequenti elementi di spiritualità, seppure neopagana. La stessa fotografia, soprattutto quella caravaggesca degli interni, con i volti e i corpi che emergono dall’oscurità, suggerisce l’idea che vi sia qualcosa da cui tutto si origina e che tende a rimanere al di fuori della nostra portata. Frequenti le sequenze che trasportano l’azione, talvolta in modo anche troppo insistito, nei boschi, presso laghi, dove la continuità tra vita e morte, la simbiosi tra uomo e natura ci proietta nelle atmosfere della religiosità wicca, ma anche in quelle del fumetto ambientalista ("Swamp Thing"). Popolano questi luoghi feti di bambini abbandonati ai piedi di alberi le cui radici hanno palpitanti sembianze umane, esseri terrigeni che emergono dal fango, dalle acque, e le cui vicende si intrecciano con quelle dei protagonisti. Qui la messa in scena ripartisce abilmente queste sequenze in una casistica evenemenziale ampia che va dalle letture fatte da Eva, agli incubi che la perseguitano, o alle visioni avute dai protagonisti nei secoli precedenti.
Carlo Hintermann, che già aveva collaborato con Terrence Malick per la parte italiana de "The Tree of Life" (2011) si avvale per questo film di Jörg Widmer sia come operatore che come direttore della fotografia. Widmer aveva a sua volta collaborato con Terrence Malick in diverse pellicole, tra cui "The New World" (2005), "To the Wonder" (2012) e "La vita nascosta – A Hidden Life" (2019). In "The Book of Vision", alcuni aspetti ricordano la poetica espressiva malickiana, come i movimenti lenti e fluidi della macchina da presa, la rinuncia a movimenti di macchina laterali o obliqui e la preferenza per gli attori che vi si avvicinano o se ne allontanano sottolineando la drammaticità di una scena; altri aspetti, come ad esempio la netta preferenza dei dialoghi alle voci fuori campo segnano invece un distacco rispetto al regista texano.
cast:
Douglas Dean, Justin Korovkin, Rocco Gottlieb, Isolda Dychauk, Filippo Nigro, Sverrir Gudnason, Lotte Verbeek, Charles Dance
regia:
Carlo Hintermann
titolo originale:
The Book of Vision
distribuzione:
RS Productions
durata:
90'
produzione:
Citrullo International, Luminous Arts Productions, Entre Chien et Loup, Rai Cinema
sceneggiatura:
Carlo Hintermann, Marco Saura
fotografia:
Jörg Widmer
scenografie:
David Crank
montaggio:
Piero Lassandro
costumi:
Mariano Tufano
musiche:
Hanan Townshend, Federico Pascucci
Ai giorni d'oggi, la giovane Eva rinuncia alla carriera medica per scoprire il momento in cui la medicina ha rinunciato all’empatia. Si imbatte così in un misterioso medico prussiano del ‘700, testimone privilegiato di questo passaggio. La lettura dei documenti da lui redatti le consentirà di soddisfare la sua curiosità.