Bisogna però ora approfondire alcuni dei tratti distintivi di "Sussurri e grida", in grado di imprimerne le immagini nella storia della settima arte. Tutti gli arredi della casa nella quale si svolgono gli eventi - dai pavimenti alle pareti, passando per coperte, mobili e tendaggi - sono caratterizzati dal colore rosso (una scenografia molto simile si ritroverà nelle scene di famiglia di "Fanny e Alexander"). Al rosso dominante fanno da contrasto il bianco dei vestiti, delle porte, dei fiori e, in prossimità dell'epilogo, il nero degli abiti indossati per il funerale di Agnese, contribuendo così alla creazione di un ambiente astratto e surreale. Questo esasperato cromatismo diventa dunque parte integrante non solo dell'universo in cui le protagoniste si muovono, ma anche della loro interiorità, delle loro relazioni, dei loro comportamenti: in altre parole, "il colore non partecipa solo del linguaggio cinematografico, esso si fa racconto, diventa trama stessa del film"
[11]. Ecco infatti che ritroviamo il rosso pure nelle numerose dissolvenze dell'opera, nel sangue che più volte sgorga nel corso della storia, negli elementi secondari o accessori dello scenario: tutto contribuisce alla creazione di un mondo che sia correlativo oggettivo dello stato d'animo delle quattro donne. E dove quel colore finisce con il legare insieme tutti i personaggi (legame che paradossalmente, come visto, manca tra le sorelle da un punto di vista affettivo) o, secondo le opinioni di alcuni, avvolgerli in un enorme ventre (d'altronde "Sussurri e grida" è un film rigorosamente al femminile, e abbiamo visto quanto sia importante la figura materna nei rapporti tra queste donne), il bianco li isola sotto una luce personale e innocente, quasi a volere salvaguardarne l'immunità e l'individualità.
"Sussurri e grida" è un film di volti e primi piani. In pochi, nella storia del cinema, sono stati in grado di dare rilevanza e profondità ai volti come Bergman: non a caso un tema tanto caro al regista svedese è quello dello specchio, anche qui presente nel
flashback di Maria. Ma "Sussurri e grida" è anche un film di voci, suoni e silenzi. Abbiamo già detto come il continuo tic tac degli orologi richiami all'immagine della morte, ai secondi che passano inesorabilmente avvicinandoci sempre di più verso il termine dei nostri giorni. Sono solo due invece i brani musicali che si possono ascoltare: uno, "Mazurka in la minore" op. 17 n. 4 di Chopin, durante il ricordo di Agnese e nel finale all'aperto; l'altro, la "Sarabanda" della "Suite in Do minore" n. 5 di Bach, al posto del dialogo che Maria e Karin intrattengono quando, per la prima e unica volta nell'opera, riescono a riavvicinarsi. Sono alcuni dei momenti più importanti di tutto il film, utilizzati in chiave espressiva per sottolineare l'armonia e la felicità di quegli istanti; un'armonia e una felicità che, però, non saranno più ripetute. Per il resto sono solo i silenzi, i sussurri e le grida ad accompagnare l'incedere della narrazione: solo così si può riprodurre l'intimo raccoglimento che le donne stanno osservando; il dolore, l'attesa e la quiete che descrivono con sottile inquietudine quegli stessi istanti.
Una parte della critica marxista, trascurando sia il valore religioso del lungometraggio che la stratificazione psicologica delle donne protagoniste, tentò di ridurre la complessità dell'opera a semplice film antiborghese. Resterà però per sempre, destinato a echeggiare continuamente nella coscienza dello spettatore, quel finale beffardo e meravigliosamente incoerente. Dopo il dialogo tra Karin e Maria in cui, come già abbiamo potuto affermare, Bergman raggiunge il culmine del proprio pessimismo non permettendo alle due sorelle una definitiva riconciliazione, dopo aver mostrato come la comunicazione tra di loro sia sostanzialmente impossibile, dopo aver palesato tutto il narcisismo dei suoi personaggi, dopo aver distrutto ogni barlume di speranza per il futuro di Karin, Maria e Anna; ecco, dopo tutto questo logorante cinismo, affidando l'ultima parola al passato Bergman delude ogni logica conclusione in favore di uno straziante ottimismo. Maria, nella lettura del diario di Agnese, rivelerà un ricordo fino ad allora sopito: il ricordo di uno dei pochi ed effimeri momenti di felicità tra le donne. Siamo all'aperto, il rosso è completamente scomparso, la fotografia naturalistica di Sven Nykvist domina sugli esterni; la voce fuori campo di Agnese, accompagnata dal già citato brano di Chopin,
sussurra qualcosa: "A un tratto abbiamo cominciato a ridere e a correre verso l'altalena abbandonata da quando ero bambina. Ci siamo sedute come tre brave sorelline e Anna ci dondolava, piano, dolcemente. I dolori erano spariti, le persone che amavo più di tutte al mondo erano lì, potevo udirle chiacchierare intorno a me, sentivo la presenza dei loro corpi, il calore delle loro mani. Volevo aggrapparmi a quel momento, e pensai: qualunque cosa accada questa è la felicità, non posso desiderare niente di più. Ora per qualche istante posso assaporare la perfezione, e sento di dover esser grata alla mia vita, che mi dà tanto".
Note
[1] O. Assayas, S. Björkman,
Conversazione con Ingmar Bergman, Lindau, Torino, 1994, p. 73.
[2] I. Bergman,
Immagini, Garzanti Libri, Milano, 1992, p. 71.
[3] I. Bergman,
Sei film, Einaudi Editore, Torino, 1979, p. 235.
[4] R. Zemignan,
Sussurri e grida, in
Ingmar Bergman a cura di Antonio Costa, Marsilio Editori, Venezia, 2009, p. 106.
[5] Sulle definizioni di "simulazione" e "dissimulazione" si legga T. Accetto,
Della dissimulazione onesta, Einaudi, Torino, 1997, p. 31: "La dissimulazione è una industria di non far vedere le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello ch'è".
[6] S. Arecco,
Ingmar Bergman, Le Mani, Genova, 2000, p. 145.
[7] F. Truffaut,
Il piacere degli occhi, Marsilio, Venezia, 1988, che riproduce l'articolo
Cinéma, univers de l'absence? pubblicato nel 1960 in "Collectif".
[8] S. Trasatti,
Ingmar Bergman, Il Castoro, Milano, 2011, p. 109.
[9] I. Bergman,
Sei film, Einaudi Editore, Torino, 1979, p. 232.
[10] I. Bergman,
Immagini, Garzanti Libri, Milano, 1992, p. 75.
[11] R. Zemignan,
cit., p. 108.