"Un documentario diventa cinema quando supera il suo soggetto", taglia corto Nicolas Philibert all'anteprima italiana di "Sur L’Adamant" al Biografilm di Bologna. Dilemma che, a dire il vero, il Maestro non si è mai posto più di tanto: capolavori di equilibrismo docufinzionale come "Nel paese dei sordi" o "Essere e avere" in quale delle due categorie dovrebbero ricadere? Solo Franco Piavoli ha ottenuto una compenetrazione così armoniosa tra cinema del reale e cinema tout court. Non passa inosservata neppure la citazione in apertura di Fernand Deligny, padre della pedagogia francese: "Il faut des trous pour que les images viennent se poser". "Buchi" che il cinema philibertiano calza da sempre con grazia, consapevole che solo in quegli spazi interstiziali e imperfetti può trovare asilo artistico. "I film respirano grazie ai loro difetti", insegna d’altronde Truffaut.
Superare il soggetto, dicevamo. A partire dal capostipite "Titicut Follies", il documentario manicomiale ne ha passate di cotte e di crude. Non nuovo a indagini tra le pieghe delle istituzioni (non necessariamente totali), Philibert punta l'obiettivo su L'Adamant, centro psichiatrico diurno flottante sulla Senna. Unico nella struttura, gemma lignea dalle finestre motorizzate somigliante a un'antica macchina da guerra, ma soprattutto nell'approccio terapeutico: neopsichiatrico, più che antipsichiatrico. I matti non vengono più "slegati", ma coinvolti in attività creative e ricreative che però non cancellano l'imprescindibile cornice medica. In tempo di scetticismo antiscientifico e imbecillità novaxoide, un messaggio decisamente necessario.
Philibert ingloba il virtuoso proposito per lanciare la sua scommessa a un cinema a corto di ossigeno: finita l'era del documentario antipsichiatrico, è tempo di costruire anziché contestare, senza per questo rinunciare all'utopia. Lo fa dando la parola agli ospiti de L'Adamant, personaggi spesso straordinari, dai volti segnati come ritratti di Géricault.
Alcuni di questi commenti lasciano con un palmo di naso per la loro penetrante lucidità: "Ci sono cose peggiori della psichiatria, non mi lamento"; "Solo perché seguo una cura non deliro: prima la cura, poi le parole"; "Senza medicine ammazzerei qualcuno". Viene data loro voce anche in senso musicale, con appositi numeri canori a scandire la narrazione: brani intitolati "Bomba umana", "Nessuno è perfetto", "Aprite le porte", peraltro di pregevole fattura.
Il momento più emozionante è però il clamoroso contro-interrogatorio che un'anziana paziente rivolge alla mini-troupe, destrutturazione dei rapporti di forza metacinematografici che non si vedeva dai tempi di "Anna". Idem dicasi per la deliberata confusione spesso ingenerata tra ricoverati e personale medico, specie nelle spassose assemblee cui partecipano gli uni e gli altri. Con sobrietà ai limiti dell'invisibile, regia e montaggio trasformano le sale del castello galleggiante in un metaverso mai del tutto impermeabile all'esterno, che s'intrufola attraverso fugaci riprese dei dintorni. I pochi trucchi messi in campo sono lezioni di funzionalità audiovisiva: su tutti il lento zoom che, in una delle prime scene, ci traghetta dal fuori al dentro con felpata discrezione.
Il meritato Orso d'Oro alla scorsa Berlinale, più che la consacrazione di un autore già da tempo consacrato, è il sigillo su un nuovo modo d'intendere il cinema civile, non più (o quantomeno non solo) strumento di denuncia ma laboratorio di possibili soluzioni. "Per quanto tempo ancora?", s'interroga e c'interroga nel finale, riferendosi alla presenza nella società di simili forze positive. Una cosa è certa: finché c'è in circolazione un umanista visionario come Nicolas Philibert possiamo dormire sonni tranquilli.
regia:
Nicolas Philibert
titolo originale:
Sur L'Adamant
distribuzione:
Les Films du Losange
durata:
109'
produzione:
TS Productions, France 3 Cinéma, LONGRIDE
fotografia:
Nicolas Philibert
montaggio:
Janusz Baranek, Nicolas Philibert