All'alba del nuovo millennio fece scalpore il successo di "Essere e avere" (due milioni di spettatori in Francia): una pellicola semi-documentaristica, destinata a riscuotere consensi in molti paesi, entrata negli annali del cinema fra i più brillanti esempi di una nuova tendenza del cinema del XXI secolo, quella di stringere un legame sempre più solido con la realtà, avvertita proprio mentre il cinema più mainstream sembra allontanarsi sempre più da essa, anche a causa dell'uso di tecniche di computer grafica sempre più sofisticate [1].
"Essere e avere" racconta l'annata scolastica di una classe mista di un piccolo villaggio della campagna francese. Il regista Nicolas Philibert, non nuovo a girare film ambientati in un singolo contesto ("La ville Louvre" del 1990 era dedicato alla vita quotidiana del museo), decise di trascorrere sei mesi insieme a un maestro, George Lopez, e ai suoi allievi dai 3 ai 10 anni. I protagonisti interpretano se stessi; non c'è copione; unicamente scene di vita che accadono di fronte alla macchina da presa. C'è, sì, una linea narrativa (che segue il trascorrere dell'anno scolastico, la maturazione degli allievi), interamente strutturata a posteriori dal lavoro di montaggio, condotto su sessanta ore di girato. L'autore c'è: ma prevalentemente si limita a osservare. Seppure, in alcuni momenti, alcune scene appaiano "provocate", si ha l'impressione che non siano mai il frutto di una deliberata costruzione scenica.
Lo stile di Philibert non corrisponde a un semplice documentario-saggio. Appartiene alla tradizione di un cinema "del reale", nata con il cinema stesso, la cui peculiarità è far collidere realtà e sua rappresentazione. Philibert è sempre rimasto fedele (sino al suo film più recente, "La maison de la radio", 2013) a un cinema "aperto al mondo, all'esterno, non chiuso in se stesso. Penso che occorra aprire le porte: che occorra spalancare le porte del cinema" [2]. Già i fratelli Lumière, nel girare "L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat", alterarono l'autenticità documentaria con l'inserimento di parenti come figuranti, a inscenare il ruolo di astanti che attendono il treno. Pure Robert Flaherty non disdegnava di ricostruire episodi di vita reale, alterando l'autenticità con l'azione della ripresa, mosso da uno sguardo intenzionalmente creativo. Metodi ancor più invasivi adottava Dziga Vertov, teorico del "cine-occhio" nell'URSS degli anni ‘20. Sarà poi la corrente del "cinema verità", o "cinema diretto", a cavallo fra anni '50 e '60, a fare programmaticamente della realtà l'oggetto di una visione artistica. Qui il cinema va nella direzione opposta alle altre arti e anche al cinema di finzione, che prende le mosse dalla vita per rappresentare la visione di un'artista. Il cinema di cui stiamo parlando ambisce a far incontrare l'individualità di uno sguardo con la realtà, scrutandola in attesa dell'inatteso. In questa tradizione si iscrive il cinema di Philibert, immediatamente a monte della recente esplosione del genere (da Gianfranco Rosi a Joshua Oppenheimer). Il discorso, ormai avviato diffusamente, è in gran parte tutto da scrivere.
Guardando "Essere e avere", si ha l'impressione di essere osservati. A volte i bambini rivolgono lo sguardo in macchina. Certamente il regista ha chiesto di essere il più possibile ignorato; ma Philibert non ha escluso dal montato quei momenti in cui, malgrado la sua raccomandazione, i bambini non hanno resistito dal guardare direttamente nella macchina da presa. Ciò che è prova della presenza della cinepresa è al contempo misura di autenticità. La presenza della macchina da presa sollecita nei bambini un'autentica curiosità. Al contrario degli adulti, che solitamente mostrano disagio a venire ripresi, i bambini restano naturali. In loro non si avverte narcisismo. Un adulto, superato il disagio, inizierebbe a recitare, magari inconsapevolmente. Il maestro, iniziando un dettato, mormora tra sé: "ancora un altro dettato...". Un bambino gli chiede cosa intende, lui spiega: sono 35 anni che fa dettati; tra poco andrà in pensione. Ecco: qui lo spettatore può chiedersi: sta recitando, George? Anche se fedele a un sentimento reale, sta mettendo in scena se stesso?
Uno dei motivi che fanno grande "Essere e avere" è aver centrato lo sguardo sull'assenza di filtri emotivi da parte dei bambini mentre vengono ripresi. Non ignorano di venir registrati, ma non ne sono condizionati. La pellicola ne guadagna una verace impressione di realismo, raramente raggiunta da altri esempi di "cinema diretto".
L'anno sta per concludersi. Dopo aver comunicato agli allievi i loro risultati (in parte con campi-controcampi, dunque con una messa in scena sia pur minimamente studiata), il regista gira un piano-sequenza fisso: riprende il commiato fra George e una bambina problematica, chiusa in se stessa, che a lui è molto affezionata. La bambina, a un certo punto, inizia a piangere. Difficile immaginare fosse prestabilito. E' un momento autentico di vita. Se il piano-sequenza è comunque prefissato, la commozione è autentica.
Il film poi si chiude con gli occhi lucidi del maestro, alla fine di un altro piano-sequenza in cui ha salutato tutti gli allievi, l'ultimo giorno prima delle vacanze. George a breve andrà in pensione, lasciando un mestiere amato. La sua commozione è palpabile; Philibert si sofferma sul suo volto. Una commozione assai distante da quella, perseguita da una televisione-spazzatura, che da anni invade i nostri schermi, in cui vengono ripresi drammi e gioie di gente comune. L'autenticità del maestro è presa diretta sull'autentico che dà la misura di un cinema di frontiera. Il regista ha affrontato un grande rischio: affacciarsi con la macchina da presa sulla soglia di momento intimo, senza turbarlo, è possibile solo dopo aver convissuto insieme molti mesi. C'è confidenza, non imposizione. Il rischio che Philibert sa evitare è di inibire la sincerità, stimolando l'esibizionismo: girare in tal modo sarebbe come calpestare un fiore, rendendo inautentico l'autentico. Con questa scena conclusiva, Philibert mostra di esser riuscito a instaurare la giusta distanza con l'oggetto del proprio sguardo. Un risultato difficilissimo reso con la massima naturalezza.
"Vorrei fare un film sull'apprendimento, perché imparare a leggere o saper contare sono le imprese più grandi che un uomo deve affrontare nel corso della sua vita": così avrebbe confessato Philibert [3]. Il film di Philibert racconta una storia. Senza intenti pedagogici, il regista è interessato ai meccanismi dell'apprendimento, della comunicazione, del confronto reciproco. E' a suo modo cinema narrativo: non è semplicemente un documentario su una scuola della provincia francese nel 2002. Ha aspirazioni più alte. Vuol raccontare cosa significa per i bambini imparare a vivere insieme, uscire dal guscio domestico, iniziare a esplorare il mondo - come quelle tartarughe che, nell'incipit, Philibert ha avuto l'idea di far camminare circospette fra i banchi. Ha scelto una classe mista, uno spazio dove convivono e si succedono bambini di età differenti, adatto a rappresentare meglio la complessità di un consesso sociale. "Essere e avere" rispecchia una visione del mondo, concepita dalla sensibilità di un artista. La sua particolarità è di non essere finzione, ma frutto di un confronto fra l'autore e un contesto autentico. Un confronto frutto di una pre-visione, seguita da una partecipe osservazione alla giusta distanza, che si è quindi fissato nell'opera creata in sede di montaggio.
[1] Vedi in questo senso l'ultimo episodio (15°) del documentario di Mark Cousins "The Story Of Film".
[2] Intervista a N. Philibert, negli extra dell'edizione francese del dvd del suo film "Retour En Normandie", 2007.
[3] C. Chatrian, "Essere e avere", Cineforum n. 500, dicembre 2010, p. 47.