Terzo episodio della terza trilogia di una saga cominciata nel 1977, che al nono capitolo vanta un ricavo combinato di 9 miliardi di dollari al box office e un giro d’affari stimato in 65 miliardi di dollari tra fumetti, romanzi, videogiochi, spin-off, serie animate, parchi a tema e quant’altro, e ha acquisito lo status di fenomeno di costume e oggetto transculturale (Jullier 2005). Numeri a parte, Lucas ha infuso la vita a un organismo complesso, un novello Frankenstein che procede ormai autonomo verso orizzonti inimmaginabili per il suo creatore.
In "L'ascesa di Skywalker", J.J. Abrams sfrutta la dimensione intertestuale del franchise per ritrovare le atmosfere della trilogia originale dopo un audace e balzano ottavo capitolo che ha incontrato, sorte curiosa per un blockbuster, il plauso dei critici (fra i quali il nostro Antonio Pettierre) e la stroncatura di una folla inferocita (con la quale simpatizza il sottoscritto). Fin dalle prime scene veniamo informati dell’esistenza di una tremenda flotta interstellare al servizio del redivivo (forse più redimorto) imperatore Palpatine, che offre a Kylo Ren l’antica saggezza dei Sith. La Resistenza lo bracca con una spedizione guidata da Rey, Poe e Finn, seguendo una pista tracciata a suo tempo da Luke Skywalker. Gli indizi disseminati lungo il cammino (la nave distrutta, il pugnale, il puntatore) si rivelano poco più che MacGuffin, espedienti narrativi che fungono da fragile raccordo tra le peripezie.
La prima grande differenza rispetto alla trilogia classica consiste nella scrittura spiccatamente character-driven, mentre la precedente era plot-driven: qui azioni e intenzioni sono meno rilevanti delle emozioni, e altrettanto volubili. La trilogia classica aveva invece modellato solidi personaggi-archetipi per poi metterli di fronte a un classico conflitto shakespeariano, quello che oppone volontà e responsabilità (o identità personale e identità sociale): Han Solo, cinico contrabbandiere e amico generoso; Leia, che in un momento di debolezza tradisce l’Alleanza per salvare il pianeta natio; Luke, devoto al padre come alla causa ribelle; Vader, dilaniato tra fanatismo religioso e amore filiale. Invece, Rey, Kylo, Finn e il nuovo Luke sono personaggi deboli, che vivono conflittualmente la propria identità – sociale o personale che sia – piuttosto che la contrapposizione fra le due.
Nello sforzo di sopperire a una sceneggiatura isterica e sconclusionata, Abrams orchestra un serrato cannoneggiamento audiovisivo. Accompagnati da una colonna sonora invadente e – come da tradizione – sfacciatamente manipolativa, gli eventi si susseguono a un ritmo incalzante subendo rovesciamenti continui. Si moltiplicano però, insieme alle sorprese, le gag forzate, i plotholes, i deus-ex-machina, le palesi incongruenze. E pluribus unum, il forsennato inseguimento di Kylo Ren e i suoi cavalieri (a proposito: dove sono finiti?) dietro a Rey per poi, una volta trovata, lasciarla fuggire tranquillamente. Le azioni dei personaggi non sono davvero significative, né obbediscono a una logica particolare, ma funzionano purché siano eseguite con rapidità e fragore. Una poetica "anything goes" in cui la Forza si trasforma da respiro vitale unificante a lotteria di superpoteri random-wise: taumaturgia, resurrezioni, morti viventi, teletrasporto, telepatia intergalattica e, udite udite, telecinesi contro le astronavi in moto.
Scatta insomma un meccanismo compensativo che sopperisce all’inconsistenza della trama con una megalomania intertestuale: la Morte Nera era il terrore degli episodi IV e VI? Qui ne spuntano centinaia. Palpatine fulminava un cavaliere Jedi in episodio VI? Qui fulmina un’intera flotta. Il duello tra Luke e Vader ha deciso le sorti della galassia? Qui lo scontro non oppone un Jedi e un Sith, ma tutti i Jedi e tutti i Sith dall’alba dei tempi. Persino l’agnizione rituale appare potenziata, elevata al quadrato (non un padre illustre, ma un nonno pantocratore). Il riferimento non sono più le fiabe, i western e i jidaigeki, ma le serialità anime e videoludiche con le loro orde di boss sempre più grossi, agguerriti e letali. Anche le saturazioni cromatiche e i violenti contrasti di luce contribuiscono all’evocazione di un'estetica virtuale in overdose di computer-grafica. L'ostinato desiderio di stupire tradisce l’ansia di legittimarsi come erede ortodosso nel lignaggio del franchise; Abrams cammina su un filo teso tra reverenza e referenza sopra il materasso del politicamente corretto, celebrando la trilogia classica in una sfilata circense di spettri e camei. Più che sequel si dovrebbe parlare di lapide cinematografica, un’appendice marmorea che consolida l’identità della saga senza estenderne l’afflato vitale.
Almeno fino a quando Rey, in un gesto che è nel contempo una storia di cinema e di un cinema, reclama il nome degli Skywalker rivendicando la possibilità di autodeterminarsi in un cosmo immenso, incerto e mutevole; ma a quel punto il film è finito, di incerto c’è soltanto il futuro e di immenso il rimpianto per l’occasione mancata. I difetti maggiori del settimo episodio – l’appiattimento sul genere action, la pedissequa aderenza alla matrice e l’abuso del registro ironico (già individuati a suo tempo dal nostro Giancarlo Usai) – ricorrono nel capitolo finale di una trilogia che, a esami ultimati, ha tutti i sintomi di un'ischemia creativa.
cast:
Carrie Fisher, Mark Hamill, Adam Driver, Daisy Ridley, John Boyega, Oscar Isaac, Anthony Daniels, Domhnall Gleeson, Kelly Marie Tran, Ian McDiarmid, Billy Dee Williams, Joonas Suotamo, Richard E. Grant, Lupita Nyongo
regia:
J.J. Abrams
titolo originale:
Star Wars: The Rise of Skywalker
distribuzione:
Walt Disney Studios Motion Pictures
durata:
141'
produzione:
Lucasfilm, Bad Robot Productions
sceneggiatura:
J.J. Abrams, Chris Terrio
fotografia:
Daniel Mindel
scenografie:
Rick Carter, Kevin Jenkins
montaggio:
Maryann Brandon, Stefan Grube
costumi:
Michael Kaplan
musiche:
John Williams