Ondacinema

recensione di Vincenzo Chieppa
7.0/10

Lo sguardo rovesciato del piccolo Antò, posato sui genitori, intenti a cominciare l’ennesima giornata di fatiche. In realtà è lei, la madre, l'unica fonte di sostentamento della famiglia, dopo che il padre, Giuseppe, ha perso un occhio in un incidente nella cava in cui lavorava come spaccapietre. E ancora gli sguardi che si scambiano i lavoratori diretti ai campi, che diventano sguardi in macchina per il frequente ricorso alla soggettiva.

L'idea dei fratelli De Serio, i due gemelli torinesi che hanno scritto e diretto questa storia di forte impegno sociale e denuncia, è chiara fin dalle prime inquadrature, ed è quella di un cinema rivelatore – non a caso i due registi sono famosi soprattutto per i loro documentari. L'occhio "magico" che il piccolo Antò attribuisce al padre, sorta di superpotere della disperazione, è in realtà l’occhio della macchina da presa che, grazie ai due registi torinesi, porta nelle sale il dibattito su uno dei temi scottanti del mondo del lavoro, quello del caporalato, il sistema di reclutamento illecito e sfruttamento della manodopera attuato principalmente nel Sud Italia nelle attività agricole, che taluni credono relegato al Novecento e che è invece ancora drammaticamente attuale. Un occhio che non vede (quasi a simboleggiare che la cecità di fronte alle questioni sociali diventa ferita diretta per le vittime); e due che vedono alla rovescia (lo sguardo da un'altra prospettiva che i registi esortano ad adottare), in un mondo in cui i diritti dei lavoratori – se tali possono definirsi – sono sistematicamente calpestati.

La condizione di questi schiavi moderni – in larga parte immigrati, ma non solo, essendovi anche molti italiani finiti in miseria o che faticano a trovare lavoro – è soltanto tratteggiata, ma ciò che i De Serio mostrano è più che sufficiente. Come del resto basta poco a intuire la bassezza morale di chi sfrutta quei lavoratori, cercando di ripulirsi la coscienza con un Padre Nostro recitato meccanicamente in una cappella ingombra di reperti archeologici.

L'archeologia è citata non per caso dai fratelli De Serio, che hanno coniato l’ideale di un "cinema archeologico", in quanto volto a scavare per ricercare la verità delle cose. E Antò da grande vuole fare proprio l’archeologo. Lui, figlio e nipote di spaccapietre, vuole continuare ad occuparsi di rocce, ma nutrendo quell’aspirazione che agli occhi innocenti di un bambino non è ancora ambizione al miglioramento della propria condizione sociale. Ma per ora Antò è costretto ad aiutare il padre su quei campi che sono stati inerti testimoni della scomparsa della madre, morta a seguito di un malore dopo l’ennesima giornata di sfruttamento lavorativo. Solo un finale inatteso, da perfetto revenge movie, giungerà a sistemare parzialmente le cose, in un'esplosione di violenza alla "Taxi Driver", tarantiniana, per un film che fino a quel momento aveva lavorato principalmente per sottrazione, con l'unica eccezione rappresentata da quel violento stacco che, dopo aver lasciato lo spettatore sull’immagine di padre e figlio addormentatisi dopo l’ennesima giornata di fatica, lo fionda nel bel mezzo di un incendio divampato nella baraccopoli, che causa la morte di un migrante (prontamente messo in un sacco e fatto sparire dal caporale di turno).

Per il loro secondo lungometraggio a soggetto, presentato alle Giornate degli autori in occasione della 77esima Mostra del cinema di Venezia (unico film italiano in concorso), i De Serio si richiamano, per certi versi, al neorealismo di "Ladri di biciclette" e al neo-neorealismo di "Dogman" (la scena – in long take – dello svisceramento del cinghiale è quasi una citazione, per fotografia e scenografia). E si affidano ad un interprete di richiamo, quel Salvatore Esposito che prova a staccarsi di dosso l'ingombrante ruolo del Genny Savastano di "Gomorra" e che regala un'interpretazione eccellente di un personaggio per il quale è sufficiente soltanto una caratterizzazione appena abbozzata per ritrovarlo comunque pienamente calato all’interno della sceneggiatura. Il risultato complessivo è più che discreto, per un film che ha trovato un benché minimo riconoscimento nel gradino più basso del podio alle Giornate degli Autori, cui è però seguita una distribuzione col contagocce, nel già penalizzante contesto delle sale in era Covid.

La storia è ispirata a fatti di cronaca (la tragedia della bracciante pugliese Paola Clemente, morta di fatica – era il 2015 – mentre lavorava all’acinellatura dell’uva nei campi di Andria), ma soprattutto a vicende familiari che quelle notizie hanno riportato alla mente dei due registi: la nonna paterna morta anch’essa nei campi, nel 1958 (a dimostrazione che oltre mezzo secolo dopo le cose non sono cambiate); il nonno paterno che faceva lo spaccapietre. E poi c’è Antò (un ottimo Samuele Carrino), che in questo contesto di richiami familiari non può che rappresentare gli stessi registi: i loro sogni, la loro immaginazione, quella di un finale per certi versi discutibile, ma totalmente a fuoco nella sua portata onirico-salvifica.


13/09/2020

Cast e credits

cast:
Salvatore Esposito, Samuele Carrino, Licia Lanera, Antonella Carone, Vito Signorile


regia:
Massimiliano De Serio, Gianluca De Serio


distribuzione:
La Sarraz


durata:
104'


produzione:
La Sarraz Pictures, Rai Cinema, Shellac, Take Five


sceneggiatura:
Gianluca e Massimiliano De Serio


fotografia:
Antoine Héberlé


scenografie:
Giorgio Barullo


montaggio:
Stefano Cravero


costumi:
Angela Tomasicchio


musiche:
Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo


Trama
Giuseppe, spaccapietre disoccupato dopo un incidente sul lavoro, e suo figlio Antò rimangono rispettivamente senza moglie e madre quando Angela muore di fatica nei campi in cui lavorava come bracciante…