Quando l'aggettivo radicale può ancora avere un senso profondo, se applicato al cinema, l'arte di Abel Ferrara è lì a fornirne un fulgido esempio. "Siberia", ultima fatica del regista newyorchese, è infatti un film che verrà ricordato come una scheggia impazzita nella pur imprevedibile e controversa carriera del cineasta statunitense. Radicale è l'approccio al lavoro sull'immagine e sul testo, radicale è la scrittura che procede per strappi e per associazioni di idee, radicale è la sfrontatezza della messa in scena, audace nelle scelte visive, ma rigorosa nel controllo totale del mezzo tecnico. E radicale è anche, e soprattutto, il senso originario dell'opera, che rifugge da qualsiasi tentativo di categorizzazione e di incasellamento in canonici criteri di classificazione cinematografica e che affronta con coraggio e ispirazione la strada pericolosa della non narrazione, della non linearità, a favore di un lavoro di descrizione dell'onirico di annichilente bellezza.
Partendo da uno spunto tipico del genere avventuroso, Ferrara ci introduce in una realtà apparentemente semplice da comprendere: Clint, uomo dal passato misterioso e dalle origini ignote, si è isolato in mezzo alle nevi per lavorare come unico oste di una piccola stamberga dove i pochi avventori si fermano per un po' di alcol. Qui, oltre alle barriere linguistiche che frenano i suoi dialoghi, il protagonista fa anche i conti con una profonda solitudine nella gestione degli spazi (sterminati) e del tempo (lentissimo). Ma c'è qualcosa che profondamente agita l'animo di quest'uomo, lo si intuisce dai quei primi piani mossi di Ferrara sul volto tormentato e consumato di Willem Dafoe. Finché l'incontro con una giovane e bellissima donna incinta non scatena in lui un turbinio di emozioni che deflagrano prima in un rapporto sessuale molto passionale e poi nella decisione estrema di prendere i cani, preparare la slitta e partire. Non bisogna pretendere alcuna razionalità nelle vicende narrate, bisogna abbandonarsi al desiderio di Ferrara di vagare per ambienti e pensieri inesplorati, occorre prepararsi alla visione senza pregiudizi e con la predisposizione all'umiltà di uno spettatore che sa di non sapere. D'altronde, lo stesso protagonista si lascia trasportare in questa odissea alla stessa maniera, senza timore di non comprendere, senza l'ossessione di dover arrivare alla fine del viaggio con un puzzle finalmente completo. L'avventura, prima di tutto fisica, che Clint inizia è un periglioso pellegrinaggio fra le tappe dell'anima, attraverso cui incontrerà luoghi impossibili: un deserto assolato, un lager dove regna la crudeltà, un paesaggio verdeggiante e rigoglioso, gli appartamenti di una città contemporanea, un parco giochi, una grotta dove luce accecante e ombre inquietanti convivono. Alla maniera dell'ultimo David Lynch o, se preferite, del primo Alejandro Jodorowsky, il cinema di Ferrara evapora e si emancipa dal materico, dal pragmatico, persino dalla comprensione umana. Con un approccio onirico estremo, intravisto spesso nella sua filmografia ma mai assurto a caposaldo di un intero film, l'autore affronta un'esperienza cinematografica completamente nuova. "Siberia", provocatoriamente intitolato con una regione del mondo ben identificabile (anche se le nevi che circondano Clint sono quelle dell'Alto Adige, dove ha avuto luogo la maggior parte delle riprese), è un'opera che mette in scena il non filmabile: paure, ossessioni, ricordi, traumi, speranze, tutti elementi immateriali cui Ferrara decide di dare una forma concreta, un colore, un'associazione di immagini.
Impossibile e anche controproducente procedere a un'interpretazione del sogno ferrariano: lo spettatore, così come il critico, ha il dovere di avvicinarsi alla visione senza la pretesa di spiegare i motivi di questa sequenza o di quell'altra. Non è l'accettabilità delle immagini mostrate che deve essere valutata e considerata, bensì la coerenza all'interno di un lavoro così complesso e stratificato. E in questo, va detto, l'inventiva dell'autore è sensazionale. C'è anche un'altra caratteristica che deve essere evidenziata di questa sorta di seduta psicanalitica davanti alla macchina da presa: l'onestà. Come se avesse abbandonato ogni forma di pudore e di riservatezza residue, Ferrara si lancia in un racconto trasparente e senza censure delle sue pulsioni più ossessive. La carrellata di incontri che Clint fa in questo lungo viaggio fino al termine della notte è essenzialmente il bilancio di una vita dilaniata dal terrore degli istinti. In questo si spiega in modo assolutamente indispensabile la scelta di usare come alter ego l'amico Dafoe. In primo luogo, è l'attore che sta seguendo Ferrara in questa sua nuova vita italiana e che dunque meglio di chiunque altro ne conosce le convinzioni artistiche, ma anche le difficoltà produttive e di affermazione del suo diritto a realizzare ancora dei lungometraggi; in secondo luogo, vantando i due una vera e solida amicizia fraterna dai tempi della New York maledetta e tentatrice, è l'interprete che può riuscire nell'ostica impresa di dare un'espressione e delle reazioni ai tormenti interiori del cineasta statunitense.
Non è inutile sottolineare il paradosso del ruolo fondamentale dell'attore e del suo lavoro in scena in un film basato soprattutto su ciò che non vediamo e non sentiamo. In questo vale la pena tornare con la mente alla Nikki Grace interpretata da Laura Dern in "INLAND EMPIRE". Anche lì la protagonista si perdeva nei meandri dell'immaginazione in un labirinto di intuizioni in cui il creatore-regista l'aveva quasi sadicamente lasciata e anche in quel caso il carisma dell'attrice era essenziale per trasformare in reazioni umane sensazioni che, altrimenti, non avevano modo per fluire attraverso l'obiettivo di una cinepresa. Vi è però una sostanziale differenza: nell'ultimo capolavoro di Lynch il carosello di eventi che andavano in scena davanti allo sguardo di Nikki-Laura riguardava riflessioni che l'autore realizzava riguardo al mondo attorno a sé, seppur attraverso la consueta lente della contemplazione e della meditazione tipiche del suo cinema; qui, invece, Ferrara guarda solo ed esclusivamente dentro l'Abel uomo e si avventura nell'audace compito di mettere in scena elementi pertinenti alla sfera dell'attività psichica che non raggiunge, necessariamente, la soglia della coscienza.
Il nero, o comunque l'oscurità, è il riflesso principale che giunge a noi attraverso questa discesa agli inferi. Le paure, infatti, che siano rivolte ai fatti del mondo (si veda il passaggio quasi inconsapevole di Clint davanti a un campo di concentramento durante una spietata esecuzione di numerosi prigionieri inermi) o ai propri ricordi personali, sono i sentimenti predominanti. Ed è soprattutto alle prese con le esperienze relative alla propria intimità che Ferrara esibisce una potenza visiva stupefacente: il rapporto con i genitori, il confronto serrato con l'ex moglie, l'ossessione per il sesso, in tutte le sue forme, vissuto in modo cristallino oppure appesantito da perversioni lugubri; in questo tour de force di immagini e suoni, di apparizioni ed esplosioni percettive, amplificato dall'ispirata fotografia di Stefano Falivene e dal montaggio di Leonardo Bianchi e Fabio Nunziata, Ferrara entra decisamente in un capitolo del tutto nuovo della sua vita artistica. Lasciata da parte l'isteria metropolitana, ma anche l'attrazione cristologica per una salvezza divina, il suo credo si sposta su convinzioni trascendentali di altro tipo, grazie alle quali la pace interiore, più che in una fede verso la spiritualità, viene raggiunta, al termine di faticoso peregrinare, attraverso la riflessione interiore, l'elaborazione delle esperienze e dei traumi del passato. Dunque, il nuovo uomo ferrariano appare meno credente in una fede religiosa e più convinto dell'importanza di una presa di coscienza razionale del proprio vissuto, tragici errori compresi.
Anche l'aspetto linguistico, in "Siberia", merita un accenno. Ai tempi di "Pasolini" e della sua presentazione alla Mostra di Venezia, si era tanto parlato di quell'uso disordinato di più lingue nella versione originale. Qui c'è una scelta che capovolge quell'approccio: forse anche per accelerare i tempi vista l'oscura epoca che stiamo vivendo per la sala cinematografica, Dafoe doppia se stesso nella versione italiana. Si crea un curioso senso di straniamento nell'assistere a una visione nella quale gli altri interpreti stranieri sono normalmente doppiati, mentre il protagonista ha una ingombrante cadenza anglofona. Nessun filtro, nessun artificio: Clint, che è Dafoe, ma è anche Ferrara, ci appare per come è, con la sua voce, il suo corpo indebolito dal viaggio, le rughe e le ombre che ne segnano l'invecchiamento.
cast:
Willem Dafoe, Dounia Sichov, Simon McBurney, Cristina Chiriac, Daniel Giménez Cacho
regia:
Abel Ferrara
distribuzione:
Nexo Digital
durata:
92'
produzione:
Vivo film, Rai Cinema, Maze Pictures, Piano
sceneggiatura:
Abel Ferrara, Christ Zois
fotografia:
Stefano Falivene
scenografie:
Renate Schmaderer
montaggio:
Leonardo D. Bianchi, Fabio Nunziata
costumi:
Brenda Gómez
musiche:
Joe Delia